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ilmarino testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #
CANTO SETTIMO
Le delizie
ALLEGORIA
L'argento della terza porta ha proporzione con la materia dell'orecchio, sicome l'avorio e 'l rubino della quarta si confanno con quella della bocca.
Le due donne, che nel senso dell'udito ritrova Adone, son la Poesia e la Musica. I versi epicurei cantati dalla Lusinga alludono alle dolci persuasioni di queste due divine facoltà, qualora, divenute oscene meretrici,incitano altrui alla lascivia. Le ninfe, che nel senso del gusto dal mezzo in giù ritengono forma di viti ed abbracciano e vezzeggiano chi loro si accosta, son figura della ebrietà, laqual suol essere molto trabocchevole agl'incentivi della libidine. Il nascimento di Venere, prodotta dalle spume del mare, vuol dire che la materia della genitura, come dice il filosofo, è spumosa e l'umore del coito è salso. Il natal d'Amore, celebrato con festa ed applauso da tutti gli animali, dà a conoscere la forza universale di questo efficacissimo affetto, da cui riceve alterazione tutta quanta la natura. Pasquino, figlio di Momo e della Satira, che per farsi grato a Venere le manda a presentare la descrizione del suo adulterio, dimostra la pessima qualità degli uomini maledici, i quali eziandio quando vogliono lodare non sanno senon dir male. Vulcano, che fabrica la rete artificiosa, è il calor naturale, ch'ordisce a Venere ed a Marte, cioè al disiderio dell'umano congiungimento, un intricato ritegno di lascive e disoneste dilettazioni. Sono i loro abbracciamenti discoverti dal Sole, simulacro della prudenza, percioché questa virtù col suo lume dimostra la bruttura di quell'atto indegno e la fa conoscere e schernire da tutto il mondo.
ARGOMENTO
Accenti di dolcissima armonia ascolta Adon tra suoni e balli e feste; s'asside a mensa con la dea celeste e le lodi d'amor canta Talia.
1
Musica e Poesia son due sorelle ristoratrici del'afflitte genti, de' rei pensier le torbide procelle con liete rime a serenar possenti. Non ha di queste il mondo arti più belle o più salubri al'affannate menti, né cor la Scizia ha barbaro cotanto, se non è tigre, a cui non piaccia il canto.
2
Suol talvolta però metro lascivo l'alte bellezze lor render men vaghe, e l'onesto piacer fassi nocivo e divengon di dee tiranne e maghe. Né fa rapido stral passando al vivo tinto di tosco sì profonde piaghe, come i morbidi versi entro ne' petti van per l'orecchie a penetrar gli affetti.
3
Elle, ingombrando il cor di cure insane col dolce vin dela lussuria molle, quasi del padre ebreo figlie profane, l'infiamman sì che fervido ne bolle. Instigate da lor le voglie umane a libertà licenziosa e folle, dietro ai vani appetiti oltre il prescritto trascorron poi del lecito e del dritto.
4
Ma s'ala forza magica di queste incantatrici e perfide sirene ad aggiungere ancor per terza peste il calor dela crapula si viene, che non può? che non fa? quante funeste ulularo per lei tragiche scene? Toglie di seggio la ragion ben spesso, l'anima invola al cor, l'uomo a sestesso.
5
Lupa vorace, ingordo mostro infame, lo cui cupo desir sempre sfavilla, che sol per satollar l'avide brame brami collo di gru, ventre di Scilla, sich'esca omai bastante a tanta fame la terra o l'acqua non produce o stilla, e dala gola tua divoratrice apena scampa l'unica fenice.
6
Dolce velen, che d'umor dolce e puro irrigando il palato innebri l'alma, dal tuo lieto furor non fu securo chi pria t'espresse con la rozza palma. Del tuo sommo poter, fra quanti furo oppressi mai di così grave salma, Erode e Baldassare ed Oloferne han lasciate tra noi memorie eterne.
7
Ma vie più ch'alcun altro Adone è quello che ne fa chiara prova, espressa fede. Eccolo là che verso il terzo ostello con la madre d'Amor rivolge il piede. E 'l portinaio ad ospite sì bello aperto il passo e libero concede e, per via angusta e flessuosa e torta, d'un in altro piacer fassi sua scorta.
8
Stava costui con pettine sonoro sollecitando armonico stromento. Un cinghiale in disparte, un cervo, un toro teneano a quel sonar l'orecchio intento. Ma, deposta la lira, al venir loro fè su 'l cardin croccar l'uscio d'argento. D'argento è l'uscio e certe conche ha vote che s'odon tintinnir, quando si scote.
9
– Dela bella armonia (di Mirra al figlio disse il figlio di Maia) è questi il duce; anch'ei dela tua dea servo e famiglio al piacer del'udire altrui conduce. Né fatto è senza provido consiglio ch'alberghi con Amor chi amor produce, poiché non è degli amorosi metri cosa in amor che maggior grazia impetri.
10
Chi d'eburnea testudine eloquente batter leggiadra man fila minute, sposando al dolce suon soavemente musica melodia di voci argute, sente talor, né penetrar si sente di que' numeri al cor l'alta virtute, spirto ha ben dissonante, anima sorda che dal concento universal discorda.
11
Fè quel senso Natura, accioché sia di tal dolcezza al ministerio presto; e bench'entrar per la medesma via soglia ciascun nel'uomo abito onesto, poscia ch'ogni arte e disciplina mia non ha varco nel'alma altro che questo, una è sol la cagion, vario l'effetto, l'uno ha riguardo al prò, l'altro al diletto.
12
Perché sempre la voce in alto monta, però l'orecchia in alto anco fu messa e d'ambo i lati, emula quasi, affronta degli occhi il sito in una linea istessa. Né men certo è del'occhio accorta e pronta, né minor che nel'occhio ha studio in essa, in cui tanti son posti e ben distinti aquedotti e recessi e labirinti.
13
Picciole sì, se pareggiarsi a quelle denno d'altro animal vile e vulgare, ma più formarsi ed eccellenti e belle già non potean né più perfette e rare. Sempre aperta han l'entrata e son gemelle per la necessità del loro affare; proprio moto non hanno e fatte sono d'un'asciutta sostanza acconcia al suono.
14
Il suono oggetto è del'udito e mosso per lo mezzo del'aere al senso viene; dal'esterno fragor rotto e percosso l'aere del suon la qualità ritiene, da cui l'aere vicin spinto e commosso come in acqua talor mobile aviene, porta ondeggiando d'una in altra sfera al'uscio interior l'aura leggiera.
15
Scorre là dov'è poi tesa a quest'uso di sonora membrana arida tela; quivi si frange e purga e quivi chiuso, agitando sestesso, entro si cela, e tra quelle torture erra confuso finch'al senso commun quindi trapela, dela cui region passando al centro il caratter del suon vi stampa dentro.
16
Concorrono a ciò far, d'osso minuto ed incude e triangolo e martello, e tutti son nel timpano battuto articolati ed implicati a quello; ed a quest'opra lor serve d'aiuto non so s'io deggia dir corda o capello, sottil così che si distingue apena se sia filo o sia nervo, arteria o vena.
17
Vedi quanto impiegò l'amor superno in un fragil composto ingegno ed arte, sol per poter del suo diletto eterno almen quaggiù communicargli parte. Ha sotto umane forme alma d'inferno chi sprezza ingrato il ben ch'ei gli comparte.– E qui fine al suo dir facondo e saggio pose degli alti numi il gran messaggio.
18
Aprir sentissi Adone il cor nel petto e gli spirti brillar d'alta allegria, quando di tanti augei, ch'avean ricetto in quell'albergo, udì la sinfonia. Qual vagabondo e libero a diletto per le siepi e sugli arbori salia; qual, perché troppo alzar non si potea, intorno al'acque e sovra i fior pascea.
19
Uopo non ha ch'industre man qui tessa di ben filato acciar gabbia o voliera, accioché degli augei la turba in essa senza poter fuggir stia prigioniera: spaziosa uccellaia è l'aria istessa che fa lor sempre autunno e primavera, ed ala libertà d'ogni augellino carcere volontario è il bel giardino,
20
né rete, né cancel rinchiude o serba il pomposo fagian, l'umil pernice; il verde parlator scioglie per l'erba lingua del sermon nostro imitatrice; v'ha di zaffiri e porpore superba la sempiterna e singolar fenice; v'ha quel che 'n sé sospeso eccelse strade tenta e d'aure si nutre e di rugiade.
21
L'aquila imperiale il sol vagheggia, col rostro il petto il pelican si fere, va il picchio a scosse e l'aghiron volteggia, la gru le sue falangi ordina in schiere, lo smeriglio e 'l terzuol seguon l'acceggia, l'oche in fila di sé fanno bandiere e la gazza tra lor menando festa erge la coda e l'upupa la cresta.
22
La colomba or nel nido a covo geme, or bacia il caro maschio, or tutta sola rade l'aria con l'ali, or per l'estreme cime d'un arboscel vola e rivola. Or col pavone innamorato insieme ingemma al sol la variabil gola, del cui ricco monil l'iri fiorita la corona del vago in parte imita
23
e le sovien, mentre dispiega l'ale, dela leggiadra sua prima sembianza e tra que' fior, da cui nacque il suo male, ancor di diportarsi ha per usanza. Ed or di chi cangiolla in forma tale rinova più la misera membranza, veggendo in compagnia del caro Adone la bella dea, del suo dolor cagione;
24
la qual, rivolta allora agli arboscelli, – Odi (gli dice) odi con quanti e quali motti amorosi, o fior di tutti i belli, spiegano i più sublimi il canto e l'ali. Amor, ch'alato è pur come gli augelli, fa che senta ogni augel gli aurati strali. Il tutto vince alfin questo tiranno. – E qui tacendo ad ascoltar si stanno.
25
Per far distinto al vago stuol che vola con lingua umana articolar sermone, maestro qui non si richiede o scola, qual trovò poi la vanità d'Annone. Ogni semplice accento era parola che, parlando di Venere e d'Adone, in spedita favella alto dicea: – Ecco con l'idol suo la nostra dea. –
26
Chiusa tra' rami d'una quercia antica, di sua verde magion solinga cella, la monichetta de' pastori amica seco invita a cantar la rondinella. Orfano tronco in secca piaggia aprica d'olmo tocco dal ciel la tortorella non cerca no, ma sovra verde pianta solitaria, non sola, e vive e canta.
27
Saltellando garrisce e poi s'asconde il calderugio infra i più densi rami. Seco alterna il canario e gli risponde quasi d'amor lodando i lacci e gli ami. Recita versi il solitario altronde e par che 'l cacciator perfido chiami. Fan la calandra e 'l verzelin tra loro e 'l capinero e 'l pettirosso un coro.
28
La merla nera e 'l calenzuol dorato odonsi altrove lusingar l'udito. La pispola il rigogolo ha sfidato, con l'ortolan s'è il beccafico unito. Contrapunteggian poi dal'altro lato lo strillo e 'l raperin che sale al dito. Con questi la spernuzzola e 'l frusone e lo sgricciolo ancor vi si frapone.
29
Con l'assiuolo il lugherin si lagna, col sagace fringuel lo storno ingordo. L'allodetta la passera accompagna, il fanello fugace il pigro tordo. Straniero augel di selva o di montagna non s'introduce in sì felice accordo se, giudice la dea, non porta in prima di mille vinti augei la spoglia opima.
30
Canta tra questi il musico pennuto, l'augel che piuma innargentata veste, quelche con canto mortalmente arguto suol celebrar l'essequie sue funeste, quelche con manto candido e canuto nascose già l'adultero celeste, quando da bella donna e semplicetta fu la fiamma di Troia in sen concetta.
31
Del bianco collo il lungo tratto stende, apre il rostro canoro e quindi tira fiato che, mentre inver le fauci ascende, per obliquo canal passa e s'aggira. Serpe la voce tremolante e rende mormorio che languisce e che sospira, e i gemiti e i sospir profondi e gravi son ricercate flebili e soavi.
32
Ma sovr'ogni augellin vago e gentile che più spieghi leggiadro il canto e 'l volo versa il suo spirto tremulo e sottile la sirena de' boschi, il rossignuolo, e tempra in guisa il peregrino stile che par maestro del'alato stuolo. In mille fogge il suo cantar distingue e trasforma una lingua in mille lingue.
33
Udir musico mostro, o meraviglia, che s'ode sì, ma si discerne apena, come or tronca la voce, or la ripiglia, or la ferma, or la torce, or scema, or piena, or la mormora grave, or l'assottiglia or fa di dolci groppi ampia catena, e sempre, o se la sparge o se l'accoglie con egual melodia la lega e scioglie.
34
O che vezzose, o che pietose rime lascivetto cantor compone e detta. Pria flebilmente il suo lamento esprime, poi rompe in un sospir la canzonetta. In tante mute or languido, or sublime varia stil, pause affrena e fughe affretta, ch'imita insieme e 'nsieme in lui s'ammira cetra flauto liuto organo e lira.
35
Fa dela gola lusinghiera e dolce talor ben lunga articolata scala. Quinci quell'armonia che l'aura molce, ondeggiando per gradi, in alto essala, e, poich'alquanto si sostiene e folce, precipitosa a piombo alfin si cala. Alzando a piena gorga indi lo scoppio, forma di trilli un contrapunto doppio.
36
Par ch'abbia entro le fauci e in ogni fibra rapida rota o turbine veloce. Sembra la lingua, che si volge e vibra, spada di schermidor destro e feroce. Se piega e 'ncrespa o se sospende e libra in riposati numeri la voce, spirto il dirai del ciel che 'n tanti modi figurato e trapunto il canto snodi.
37
Chi crederà che forze accoglier possa animetta sì picciola cotante? e celar tra le vene e dentro l'ossa tanta dolcezza un atomo sonante? O ch'altro sia che da liev'aura mossa una voce pennuta, un suon volante? e vestito di penne un vivo fiato, una piuma canora, un canto alato?
38
Mercurio allor che con orecchie fisse vide Adone ascoltar canto sì bello: – Deh che ti pare (a lui rivolto disse) dela divinità di quell'augello? Diresti mai che tanta lena unisse in sì poca sostanza un spiritello? un spiritel che d'armonia composto vive in sì anguste viscere nascosto?
39
Mirabil arte in ogni sua bell'opra, ciò negar non si può, mostra Natura; ma qual pittor, che 'ngegno e studio scopra vie più che 'n grande in picciola figura, nele cose talor minime adopra diligenza maggiore e maggior cura. Quest'eccesso però sovra l'usanza d'ogni altro suo miracolo s'avanza.
40
Di quel canto nel ver miracoloso una istoria narrar bella ti voglio: caso inun memorando e lagrimoso, da far languir di tenerezza un scoglio. Sfogava con le corde in suon pietoso un solitario amante il suo cordoglio. Tacean le selve e dal notturno velo era occupato in ogni parte il cielo.
41
Mentr'addolcia d'amor l'amaro tosco col suon che 'l Sonno istesso intento tenne, l'innamorato giovane, ch'al bosco per involarsi ala città sen venne, sentì dal nido suo frondoso e fosco questo querulo augel batter le penne e gemendo accostarsi ed invaghito mormorar tra sestesso il suono udito.
42
L'infelice augellin, che sovra un faggio erasi desto a richiamare il giorno e dolcissimamente in suo linguaggio supplicava l'aurora a far ritorno, interromper del bosco ermo e selvaggio i secreti silenzi udì dintorno e ferir l'aure d'angosciosi accenti del trafitto d'Amor gli alti lamenti.
43
Rapito allora e provocato insieme dal suon, che par ch'a sé l'inviti e chiami, dale cime del'arbore supreme scende pian piano insu i più bassi rami; e ripigliando le cadenze estreme quasi ascoltarlo ed emularlo brami, tanto s'appressa e vola e non s'arresta ch'alfin viene a posargli insu la testa.
44
Quei che le fila armoniche percote sente, né lascia l'opra, il lieve peso, anzi il tenor dele dolenti note più forte intanto ad iterare ha preso. E 'l miser rossignuol quanto più pote segue suo stile ad imitarlo inteso. Quei canta, e nel cantar geme e si lagna, e questo il canto e 'l gemito accompagna.
45
E quivi l'un su 'l flebile stromento a raddoppiare i dolorosi versi e l'altro a replicar tutto il lamento come pur del suo duol voglia dolersi, tenean con l'alternar del bel concento tutti i lumi celesti a sé conversi ed allettavan pigre e taciturne vie più dolce a dormir l'ore notturne.
46
Da principio colui sprezzò la pugna e volse del'augel prendersi gioco. Lievemente a grattar prese con l'ugna le dolci linee e poi fermossi un poco. Aspetta che 'l passaggio al punto giugna l'altro e rinforza poi lo spirto fioco e, di natura infaticabil mostro, ciò ch'ei fa con la man rifà col rostro.
47
Quasi sdegnando il sonatore arguto del'emulazion gli alti contrasti e che seco animal tanto minuto, nonché concorra, al paragon sovrasti, commincia a ricercar sovra il liuto del più difficil tuon gli ultimi tasti; e la linguetta garrula e faconda, ostinata a cantar, sempre il seconda.
48
Arrossisce il maestro e scorno prende che vinto abbia a restar da sì vil cosa. Volge le chiavi, i nervi tira e scende con passata maggior fino ala rosa. Lo sfidator non cessa, anzi gli rende ogni replica sua più vigorosa e, secondo che l'altro o cala o cresce, labirinti di voce implica e mesce.
49
Quei di stupore allor divenne un ghiaccio e disse irato: "Io t'ho sofferto un pezzo. O che tu non farai questa ch'io faccio o ch'io vinto ti cedo e 'l legno spezzo". Recossi poscia il cavo arnese in braccio e, come in esso a far gran prove avezzo, con crome in fuga e sincope a traverso pose ogni studio a variare il verso.
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Senz'alcuno intervallo e piglia e lassa la radice del manico e la cima, e come il trae la fantasia s'abbassa, poi risorge in un punto e si sublima. Talor trillando al canto acuto passa e col dito maggior tocca la prima, talora ancor con gravità profonda fin del'ottava insu 'l bordon s'affonda.
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Vola su per le corde or basso, or alto più che l'istesso augel la man spedita. Di su, di giù con repentino salto van balenando le leggiere dita. D'un fier conflitto e d'un confuso assalto inimitabilmente i moti imita ed agguaglia col suon de' dolci carmi i bellicosi strepiti del'armi.
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Timpani e trombe e tutto ciò che, quando serra in campo le schiere, osserva Marte, i suoi turbini spessi accelerando, nela dotta sonata esprime l'arte, e tuttavia moltiplica sonando le tempeste de' groppi in ogni parte; e mentr'ei l'armonia così confonde, il suo competitor nulla risponde.
53
Poi tace e vuol veder se l'augelletto col canto il suon per pareggiarlo adegua. Raccoglie quello ogni sua forza al petto, né vuole in guerra tal pace né tregua. Ma come un debil corpo e pargoletto esser può mai ch'un sì gran corso segua? Maestria tale ed artificio tanto semplice e natural non cape un canto.
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Poiché molte e molt'ore ardita e franca pugnò del pari la canora coppia, ecco il povero augel ch'alfin si stanca e langue e sviene e 'nfievolisce e scoppia. Così qual face che vacilla e manca, e maggior nel mancar luce raddoppia, dala lingua che mai ceder non volse il dilicato spirito si sciolse.
55
Le stelle, poco dianzi innamorate di quel soave e dilettevol canto, fuggir piangendo e dale logge aurate s'affacciò l'alba e venne il sole intanto. Il musico gentil per gran pietate l'estinto corpicel lavò col pianto ed accusò con lagrime e querele non men sestesso che 'l destin crudele
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ed ammirando il generoso ingegno, fin negli aliti estremi invitto e forte, nel cavo ventre del sonoro legno il volse sepelir dopo la morte. Né dar potea sepolcro unqua più degno a sì nobil cadavere la sorte. Poi con le penne del'augello istesso vi scrisse di sua man tutto il successo.
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Ma chi fu che l'instrusse? il mastro vero, non so se 'l sai, fu di quest'arte Amore. Egli insegnò la musica primiero, ei fu de' dolci numeri l'autore e del soave ordigno e lusinghiero volse le corde nominar dal core. O che strana armonia dolce ed amara nela sua scola un cor ferito impara!
58
Dica costei che 'l sa, costei che 'l sente, di questa invenzion l'origin vera; fa che l'istesso Amor, ch'è qui presente, ti narri onde l'apprese e 'n qual maniera. Contan ch'un dì nela fucina ardente, che d'Etna alluma la spelonca nera, dove alternano i fabri i colpi in terzo, l'ingegnoso fanciullo entrò per scherzo
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ed osservando de' martelli i suoni librati insu l'ancudini percosse, le cui battute a tempo a tempo e i tuoni facean parer ch'un bel concerto fosse, le regole non note e le ragioni dele misure a specolar si mosse, e con stupor del padre e de' ministri gl'intervalli trovò de' bei registri.
60
Dela prim'opra il semplice lavoro fu rozza alquanto e maltemprata cetra e da compor quell'organo sonoro la materia gli diè l'aurea faretra. Per fabricarne le chiavette d'oro ruppe lo stral, che rompe anco la pietra. L'arco proprio adoprò d'archetto in vece e dela corda sua le corde fece.
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Apollo, il dotto dio, meglio dispose l'ordine poi de' tasti e de' concenti, ed io, che vago son di nove cose, novi studi mostrai quindi ale genti e 'n più forme leggiadre e dilettose d'inventar m'ingegnai vari stromenti, onde certa e perfetta alfin ne nacque la bella facoltà che tanto piacque.
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Piace a ciascun, ma più ch'agli altri piace agl'inquieti e travagliati amanti, né trova altro refugio ed altra pace un tormentato cor che suoni e canti. Egli è ben ver che 'l suono è sì efficace che provoca talor sospiri e pianti e i duo contrari estremi in guisa ha misti che rallegra gli allegri, attrista i tristi.–
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Qui tacque il gran corrier, che porta alato in man lo scettro e di due serpi attorto, perché mentre ch'Adone innamorato per l'ameno giardin mena a diporto, venir non lunge per l'erboso prato d'uomini e donne un bel drappello ha scorto, e due ninfe di vista assai gioliva come capi guidar la comitiva.
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Mostra ignudo il bel seno una di queste e tremanti di latte ha le mammelle, verdeggiante ghirlanda, azzurra veste ed ali, onde talor vola ale stelle; trombe, cetre, sampogne un stuol celeste di fanciulli le porta e di donzelle; nela destra sostien scettro d'alloro, stringe con l'altra man volume d'oro.
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Di costei la compagna ha di fioretti amorosi e leggiadri i crini aspersi, varia la gonna, in cui di vari aspetti e chiavi e note ha figurate e versi; dietro le tranno ancor ninfe e valletti misure e pesi ed organi diversi, musici libri e con ballorie e canti di vermiglio lieo vasi spumanti.
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Soggiunse allor Mercurio: – Ecco di due suore d'un parto inclita coppia e degna, degna non dico del'orecchie tue, ma del gran re che su le stelle regna. La prima ha del divin nel'opre sue, l'altra di secondarla anco s'ingegna e con stupore e con diletto immenso l'una attrae l'intelletto e l'altra il senso.
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Quella ch'innanzi alquanto a noi s'appressa e più nobil rassembra agli occhi miei, seben ritrovatrice è per sestessa e l'arte del crear trae dagli dei, con la cara gemella è sì connessa ch'i ritmi apprende a misurar da lei, e da lei, che le cede e le vien dietro, prende le fughe e le posate al metro.
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Colei però che accompagnar la suole ha del'aiuto suo bisogno anch'ella, né sa spiegar se si rallegra o dole senon le passion dela sorella; da lei gli accenti impara e le parole, da lei distinta a scioglier la favella; senza lei fora un suon senza concetto, priva di grazia e povera d'affetto.
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Per queste lor reciproche vicende sempre unite ambedue n'andranno al paro e con quel lume, onde virtù risplende, risplenderan nel secolo più chiaro. I primi raggi lor la Grecia attende, cui promette ogni grazia il cielo avaro, la Grecia in cui per molti e molti lustri le terranno in onor spiriti illustri.
70
Col tempo poi diverran gioco e preda e dele genti barbare e degli anni; colpa di Marte, a cui convien che ceda ogni arte egregia, e colpa de' tiranni. Sola l'Italia alfin fia che possieda qualche reliquia degli antichi danni, ma la bella però luce primiera si smarrirà dela scienza vera.
71
Bench'alloggino or qui le mie dilette, non son già queste le lor stanze usate; là nel mio ciel con altre giovinette abitan come dee sempre beate. Se mai lassù venir ti si permette, ti mostrerò gli alberghi ove son nate. Qui con Amore a trastullarsi intente dal'eterna magion scendon sovente. –
72
Vennero al vago Adon strette per mano, tutte festa il sembiante e foco il volto, queste due belle e con parlar umano, poiché 'n schiera tra lor l'ebbero accolto, n'andaro ove s'aprì nel verde piano di lieta gente un largo cerchio e folto, ch'invitandolo seco al bel soggiorno gli fè corona, anzi teatro intorno.
73
Non so se vere o vane avean sembianze tutti di damigelle e di garzoni. Alternavan costor mute e mutanze, raddoppiavan correnti e ripoloni, lascivamente ale festive danze dolci i canti accordando, ai canti i suoni. Cetre e salteri e crotali e taballi ivan partendo in più partite i balli.
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Forati bossi e concavi oricalchi e rauche pive e pifferi tremanti mostrano altrui come il terren si calchi, regolando con legge i passi erranti; per l'ampie logge e su i fioriti palchi miransi cori di felici amanti tagliar canari, essercitar gagliarde, menar pavane ed agitar nizzarde.
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Precede lor la prima coppia, e questa con piante maestrevoli e leggiere, guidatrice del ballo e dela festa, carolando sen va fra quelle schiere, sì gaia in vista e sovra 'l piè sì presta che forse al suon dele rotanti sfere soglion lassù men rapide e men belle per le piazze del ciel danzar le stelle.
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Dicean tutti cantando: – O dea beata, o bella universal madre e nutrice, con l'istessa Natura a un parto nata, di quanto nasce original radice, per cui genera al mondo e generata ogni stirpe mortal vive felice: felice teco in queste rive arrivi quella beltà per cui felice vivi.
77
Al tuo cenno le Parche ubbidienti tiran le fila in vari stami ordite. Dal tuo consiglio, in tua virtù crescenti Natura impara a seminar le vite. Per legge tua di sfere e d'elementi stansi le tempre in bel legame unite. Se non spirasse il tuo spirto fecondo i nodi suoi rallenterebbe il mondo.
78
Tu ciel, tu terra e tu conservi e folci fiori, erbe, piante e nele piante il frutto. Tu crei, tu reggi e tu ristori e molci uomini e fere e l'universo tutto, che senza i doni tuoi giocondi e dolci solitario per sé fora e distrutto; ma mentre stato varia e stile alterna la tua mercede, il suo caduco eterna.
79
Lumiera bella, che con luce lieta dele tenebre umane il fosco allumi, da cui nasce gentil fiamma secreta, fiamma onde i cori accendi e non consumi; d'ogni mortal benefattor pianeta, gloria immortal de' più benigni numi, ch'altro non vuoi ch'a prò di chi l'ottiene godere il bello e possedere il bene.
80
Commessura d'amor, virtù ch'innesti con saldi groppi di concordi amplessi e le cose terrene e le celesti e supponi al tuo fren gli abissi istessi; per cui con fertil copula contesti vicendevol desio stringe duo sessi, siché, mentre l'un dona e l'altro prende, il cambio del piacer si toglie e rende.–
81
Con quest'inno devoto e questo canto venne la turba a venerar la dea, ballando sempre, e fatto pausa alquanto al concerto dolcissimo, tacea. Con Mercurio ed Amore Adone intanto e con Venere altrove il piè movea, quand'ecco a sé con non minor diletto novello il trasse e disusato oggetto.
82
Un fiore, un fiore apre la buccia e figlia, ed è suo parto un biondo crin disciolto, e dopo 'l crin con due serene ciglia ecco una fronte e con la fronte un volto. Al principio però non ben somiglia il mezzo e 'l fin, ma differente è molto. Vedesi ala beltà, che quindi spunta, forma di stranio augello esser congiunta.
83
Tosto che 'n luce a poco a poco uscio quel fantastico mostro al'improviso, non sorse in piè, ma del suo fior natio restò tra l'erbe e tra le foglie assiso. Occhio ha ridente, atto benigno e pio, ha feminile e giovenile il viso. Veston le spalle e 'l sen penne stellate, fregian le gambe e i piè scaglie dorate.
84
Serpentina la coda al ventre ha chiusa, lunata e qual d'arpia l'unghia pungente. Cela un amo tra' fiori, onde delusa tira l'incauta e semplicetta gente. Tien di nettare e mel la lingua infusa, che persuade altrui soavemente. Così la bella fera i sensi alletta, fera gentil, che la Lusinga è detta.
85
La Lusinga è costei. Lunge fuggite, o di falso piacer folli seguaci! Non ha sfinge o sirena o più mentite parolette e sembianze o più sagaci! Copron perfide insidie, aspre ferite, abbracciamenti adulatori e baci. Vipera e scorpion, con arti infide baciando morde ed abbracciando uccide.
86
La chioma intanto, che 'n bei nodi involta stringon con ricche fasce auree catene, dal carcer suo disprigionata e sciolta su per le membra a sviluppar si viene; laqual può, tanto è lunga e tanto è folta, le laidezze del corpo adombrar bene, siché sotto le crespe aurate e bionde tutti i difetti inferiori asconde.
87
Del'altrui vista insidiosa e vaga ella o che non s'avide o che s'infinse, indi la voce incantatrice e maga in note più ch'angeliche distinse; note in cui per far dolce incendio e piaga Amor le faci e le quadrella intinse. Uscir dolce tremanti udiansi fuori i misurati numeri canori.
88
Tal forse intenerir col dolce canto suol la bella Adriana i duri affetti e con la voce e con la vista intanto gir per due strade a saettare i petti; e 'n tal guisa Florinda udisti, o Manto, là ne' teatri de' tuoi regi tetti, d'Arianna spiegar gli aspri martiri e trar da mille cor mille sospiri.
89
Fermaro il corso i fiumi, il volo i venti e gli augelletti al suo cantar le penne. Fuggì l'arbor di Dafni i bei concenti, che del canto d'Apollo a lei sovenne. Apollo istesso i corridori ardenti, vinto d'alta dolcezza, a fren ritenne. E queste fur le lusinghiere e scorte voci, ov'accolta in aura era la morte:
90
– Voi che scherzando gite, anime liete, per la stagion ridente e giovenile, cogliete con man provida, cogliete fresca la rosa insu l'aprir d'aprile, pria che quel foco che negli occhi avete freddo ghiaccio divenga e cener vile, pria che caggian le perle al dolce riso e, com'è crespo il crin, sia crespo il viso.
91
Un lampo è la beltà, l'etate un'ombra, né sa fermar l'irreparabil fuga. Tosto le pompe di natura ingombra invida piuma, ingiuriosa ruga. Rapido il tempo si dilegua e sgombra, cangia il pel, gli occhi oscura, il sangue asciuga; Amor non men di lui veloci ha i vanni: fugge co' fior del volto il fior degli anni.
92
De' lieti dì la primavera è breve, né si racquista mai gioia perduta. Vien dopo 'l verde con piè tardo e greve la Penitenza squallida e canuta. Dove spuntava il fior, fiocca la neve, e colori e pensier trasforma e muta, sì ch'uom freddo in amor quelle pruine ch'ebbe dianzi nel core, ha poi nel crine.
93
Saggio colui ch'entro un bel seno accolto gode il frutto del ben che gli è concesso. Ed o! stolto quel cor, né men che stolto crudo, né men ch'altrui crudo a sestesso, cui quel piacer per propria colpa è tolto, che vien sì raro e si desia sì spesso. Anima in cui d'amor cura non regna o che non vive o ch'è di vita indegna. –
94
Cigno che canti, rossignuol che plori, musa o sirena che d'amor sospiri, aura o ruscel che mormori tra' fiori, angel che mova il plettro o ciel che giri, non di tanta dolcezza innebria i cori, lega i sensi talor, pasce i desiri, con quanta la mirabile armonia per l'orecchie al garzone il cor feria.
95
Sparse vive faville in ogni vena gli avea già quella insolita beltade, quando un raggio di sol toccolla apena, che la disfece in tenere rugiade. O diletto mortal, gioia terrena, come pullula tosto e tosto cade! Vano piacer che gli animi trastulla, nato di vanità, svanisce in nulla.
96
In questo mentre a più secrete soglie già s'apre Adon con la sua bella il varco. Già di candido avorio uscio l'accoglie, ch'ha di schietto rubin cornice ed arco. Tien di frutti diversi e fronde e foglie il ministro che 'l guarda un cesto carco. Fan de' sapori, ond'egli ha il grembo onusto, una scimia ed un orso arbitro il gusto.
97
Questi, guidando Adon di loggia in loggia, in una selva sua fa che riesca. Piangon quivi le fronde e stillan pioggia di celeste licor soave e fresca, onde l'augel che tra' bei rami alloggia in un tronco medesmo ha nido ed esca, ed ala cara sua prole felice quella pianta ch'è culla anco è nutrice.
98
Con certa legge e sempr'ugual misura qui tempra i giorni il gran rettor del lume. Non v'alterna giamai tenor Natura, né con sue veci il sol varia costume, ma fa con soavissima mistura gli ardori algenti e tepide le brume. Sparsa il bel volto di sereno eterno ride la state e si marita al verno.
99
In ogni tempo e non arato o culto meraviglie il terren produce e serba, e nel prato nutrisce e nel virgulto la matura stagion mista al'acerba, perché l'anno fanciullo e 'nsieme adulto dona il frutto ala pianta, il fiore al'erba, talché congiunto il tenero al virile lussuria ottobre e pargoleggia aprile.
100
Di fronde sempre tenere e novelle l'orno, l'alno, la quercia il ciel ingombra: piante sterili sì, ma grandi e belle, di frutto invece han la bellezza e l'ombra. L'allor non più fugace opache celle tesse di rami e 'n guisa il prato adombra che, per dar agli amori albergo ed agio, par voglia d'arboscel farsi palagio.
101
Vi fan vaghe spalliere ombrosi e folti tra purpurei rosai verdi mirteti. Quasi per mano stretti e 'n danza accolti ginebri e faggi e platani ed abeti si condensan così ch'ordiscon molti labirinti e ricovri ermi e secreti; né Febo il crin, senon talor v'asconde, quando l'aura per scherzo apre le fronde.
102
Trionfante la palma infra lo spesso popolo dele piante il capo estolle. Piramide de' boschi, alto il cipresso signoreggia la valle, agguaglia il colle. Umidetto d'ambrosia il fico anch'esso mostra il suo frutto rugiadoso e molle, che piangendo si sta fra foglia e foglia, chino la fronte e lacero la spoglia.
103
Dala madre ritorta e pampinosa pende la dolce e colorita figlia, parte fra' tralci e fra le foglie ascosa, parte dal sole il nutrimento piglia. Altra di color d'oro, altra di rosa, altra più bruna ed altra più vermiglia. Qual acerba ha la scorza e qual matura, qual comincia pian piano a farsi oscura.
104
Scopre il punico stelo il bel tesoro degli aurei pomi di rossor dipinti; apre un dolce sorriso i grani loro ne' cavi alberghi in ordine distinti, onde fa scintillar dal guscio d'oro molli rubini e teneri giacinti e, quasi in picciol iride, commisti sardonici, balassi ed ametisti.
105
Nutre il susin tra questi anco i suoi parti: altri obliqui ne forma, altri ritondi, quai di stille di porpora consparti, quai d'eben negri e quai più ch'ambra biondi. Men pigro il moro in sì beate parti al verme serican serba le frondi. Havvi il mandorlo aprico et havvi il pome che trae di Persia il suo legnaggio e 'l nome.
106
Al'opra natural cultrice mano con innesti ingegnosi aggiunse pregio, indolcì l'aspro, incivilì l'estrano, ornò 'l natio di peregrino fregio. Congiunto al cornio suo minor germano fiammeggia il soavissimo ciregio. Nasce l'uva dal sorbo ed adottato dal'arancio purpureo è il cedro aurato.
107
Anzi virtù d'amor vie più che d'arte, la men pura sostanza indi rimossa, perché perfetta il frutto abbia ogni parte, fa che le polpe sue nascan senz'ossa, e tanto in lor di suo vigor comparte che ciascun d'essi oltremisura ingrossa. Il pero, il prun prodigioso e 'l pesco vive in ogni stagion maturo e fresco.
108
Mostrando il cor fin nele foglie espresso preme il tronco fedel l'edra brancuta. Stringe il marito e gli s'appoggia appresso la vite, onde la vita è sostenuta. Vibra nel gelo amor, nel vento istesso la face ardente e la saetta acuta. L'acque accese d'amor bacian le sponde e discorron d'amor l'aure e le fronde.
109
Tra que' frondosi arbusti Adon sen varca e co' numi compagni oltre camina, dove ogni pianta i verdi rami inarca, quasi voglia abbracciar chi s'avicina, e di frutti e di fior giamai non scarca e del bel peso prodiga, s'inchina. Piove nettar l'olivo e l'elce manna, mele la quercia e zucchero la canna.
110
Qui son di Bacco le feconde vigne, dove in pioggia stillante il vin si sugge. Di candid'uve onusta e di sanguigne quivi ogni vite si diffonde e strugge; le cui radici intorno irriga e cigne di puro mosto un fiumicel che fugge; scorre il mosto dal'uve e dale foglie e 'n vermiglio ruscel tutto s'accoglie.
111
S'accoglie in rivi il dolce umore e 'n fiume apoco apoco accumulato cresce, e nutre a sé tra le purpuree spume di color, di sapor simile il pesce. Folle chi questo o quel gustar presume, che per gran gioia di sestesso n'esce: ride, e 'l suo riso è sì possente e forte che la letizia alfin termina in morte.
112
Arbori estrane qui, se prestar fede lice a tanto portento, esser si scrive. Spunta con torto e noderoso piede il tronco inferior sovra le rive, ma dala forca insù quelche si vede ha forma e qualità di donne vive: son viticci le chiome e i diti estremi figliano tralci e gettano racemi.
113
Dafni o Siringa tal fors'esser debbe in riva di Ladone o di Peneo, quando l'una a Tessaglia e l'altra accrebbe nova verdura ai boschi di Liceo. Forse in forma sì fatta a mirar ebbe sue figlie il Po nel caso acerbo e reo, quando a spegner le fiamme entro il suo fonte, sinistrando il sentier, venne Fetonte.
114
Sotto le scorze ruvide ed alpestre sentesi palpitar spirto selvaggio. Soglion ridendo altrui porger le destre e s'odon favellar greco linguaggio. Ma che frutto si colga o fior silvestre non senza alto dolor soffron l'oltraggio. Bacian talor lusingatrici oscene, ma chi gusta i lor baci ebro diviene.
115
Con pampinosi e teneri legami stringono ador ador quel fauno e questo, che, non potendo poi staccar da' rami la parte genital, fanno un innesto. Fansi una specie istessa e di fogliami veston le braccia e divien sterpo il resto, verdeggia il crine e con le barbe in terra indivisibilmente il piè s'afferra.
116
Quanti favoleggiò numi profani l'etate antica han quivi i lor soggiorni. Lari, Sileni e Semicapri e Pani, la man di tirso, il crin di vite adorni, Geni salaci e rustici Silvani, Fauni saltanti e Satiri bicorni e, di ferule verdi ombrosi i capi, senza fren, senza vel Bacchi e Priapi
117
e Menadi e Bassaridi vi scerni ebre pur sempre e sempre a bere acconce, ch'intende or di latini, or di falerni a votar tazze ed asciugar bigonce ed, agitate da' furori interni, rotando i membri in sozze guise e sconce, celebran l'orgie lor con queste o tali fescennine canzoni e baccanali:
118
– Or d'ellera s'adornino e di pampino i giovani e le vergini più tenere, e gemina nel'anima si stampino l'imagine di Libero e di Venere. Tutti ardano, s'accendano ed avampino qual Semele, ch'al folgore fu cenere, e cantino a Cupidine ed a Bromio con numeri poetici un encomio.
119
La cetera col crotalo e con l'organo su i margini del pascolo odorifero, il cembalo e la fistula si scorgano col zuffolo, col timpano e col pifero, e giubilo festevole a lei porgano, ch'or Espero si nomina, or Lucifero, ed empiano con musica che crepiti quest'isola di fremiti e di strepiti.
120
I satiri con cantici e con frottole tracannino di nettare un diluvio. Trabocchino di lagrima le ciottole che stillano Pausilipo e Vesuvio. Sien cariche di fescine le grottole e versino dolcissimo profluvio. Tra frassini, tra platani e tra salici esprimansi de' grappoli ne' calici.
121
Chi cupido è di suggere l'amabile del balsamo aromatico e del pevere, non mescoli il carbuncolo potabile col Rodano, con l'Adige o col Tevere, ch'è perfido, sacrilego e dannabile e gocciola non merita di bevere chi tempera, ch'intorbida, chi 'ncorpora co' rivoli il crisolito e la porpora.
122
Ma guardinsi gli spiriti che fumano, non facciano del cantaro alcun strazio, e l'anfore non rompano che spumano, già gravide di liquido topazio; ché gli uomini ir in estasi costumano, e s'altera ogni stomaco ch'è sazio, e 'l cerebro che fervido lussuria più d'Ercole con impeto s'infuria –.
123
Mentr'elle ivan così con canti e balli alternando euoè giolive e liete, intente tuttavia negl'intervalli, sgonfiando gli otri, ad innaffiar la sete, passando Adon di quell'amene valli nele più chiuse viscere secrete, trovò morbida mensa ed apprestati erano intorno al desco i seggi aurati.
124
– Qui, bellissimo Adon, depor conviensi (ricominciò Cillenio) ogni altra cura. Col ristoro del cibo uopo è che pensi di risarcir, di rinforzar natura. E poiché ciascun già degli altri sensi in queste liete piagge ebbe pastura, vuolsi il gusto appagar, però che tocca del diletto la parte anco ala bocca.
125
La bocca è ver che del'uman sermone, solo ufficio del'uomo, è nunzia prima. Concetto alcun non sa spiegar ragione che per lei non si scopra e non s'esprima; interprete divin, per cui s'espone quanto nel petto altrui vuol che s'imprima, e la voce è di ciò mezzana ancella, l'intelletto e 'l pensier di chi favella.
126
Ma serve ancora ad operar che cresca l'interno umor, né per ardor s'estingua; a cui, quando talor cibo rinfresca, fa credenziera e giudice la lingua; né per la gola mai passa alcun'esca, ch'ivi prima il sapor non si distingua. Fatto il saggio ch'ell'ha d'ogni vivanda, in deposito al ventre alfin la manda.
127
E perché l'uom, ch'ale fatiche è lento, nel'operazion mai non si stanchi, e, non pascendo il natural talento, l'individuo mortal si strugga e manchi, vuol chi tutto creò che l'alimento non sia senza il piacer che lo rinfranchi, onde questo con quel sempre congiunto abbia a nutrirlo e dilettarlo a un punto.
128
Notasti mai da quante guardie e quali sia la lingua difesa e custodita? Perché da' soffi gelidi brumali del nevoso aquilon non sia ferita, quasi di torri o pur d'antemurali coronata è per tutto e ben munita; e perch'altro furor non la combatta, sotto concavo tetto il corpo appiatta.
129
Dale fauci al palato in alto ascende quanto basta e convien polputa e grossa. Larga ha la base, e quanto più si stende s'aguzza in cima, ed è spugnosa e rossa. Ha la radice, onde deriva e pende, forte, perch'aggirar meglio si possa. Volubilmente si ripiega e vibra, muscolosa, nervosa e senza fibra.
130
Dico così che il facitor sovrano cotale ad altro fin non la costrusse senon perché del nutrimento umano, che dal gusto provien, stromento fusse; senza ilqual uso inutil fora e vano quanto di dolce al mondo egli produsse. E questa del tuo cor fiamma immortale senza Cerere e Bacco è fredda e frale.–
131
Così parla il signor del'eloquenza, indi per mano il vago Adon conduce là dove pompa di real credenza veste i selvaggi orror di ricca luce. Con bell'arte disposto e diligenza l'oro e l'elettro in ordine riluce. Di materia miglior poi vi si squadra d'altre vasella ancor serie leggiadra.
132
Ma duo fra gli altri di maggior misura d'un intero smeraldo Adon ne vide, gemma d'amor che cede e non s'indura alo scarpello, e col bel verde ride. Non so se di sì nobile scultura oggi alcun'opra il gran Bologna incide che i bei rilievi e i dilicati intagli, qui da Dedalo fatti, in parte agguagli.
133
In un de' vasi il simulacro altero dela diva del loco è sculto e finto, ma sì sembiante è il simulato al vero che l'esser dal parer quasi n'è vinto. Il sanguigno concetto e 'l suo primiero fortunato natal v'appar distinto. Miracolo a veder come pria nacque, genitrice d'Amor, figlia del'acque.
134
Saturno v'è, ch'al proprio padre tronca l'oscene membra e dalle in preda a Dori; Dori l'accoglie in cristallina conca, fatta nutrice de' nascenti ardori. Zefiro v'è, che fuor di sua spelonca batte l'ali dipinte a più colori, e del parto gentil ministro fido sospinge il flutto leggiermente al lido.
135
Vedresti per lo liquido elemento nuotar la spuma gravida e feconda, poscia in oro cangiarsi il molle argento e farsi chioma innanellata e bionda. La bionda chioma incatenando il vento serpeggia e si rincrespa, emula al'onda. Ecco spunta la fronte a poco a poco, già l'acque a' duo begli occhi ardon di foco.
136
O meraviglia, e trasformar si scorge in bianche membra alfin la bianca spuma. Novo sol dal'Egeo si leva e sorge, che 'l mar tranquilla e l'aria intorno alluma; sol di beltà, ch'altrui conforto porge e dolcemente l'anime consuma. Così Venere bella al mondo nasce, un bel nicchio ha per cuna, alghe per fasce.
137
Mentre col piè rosato e rugiadoso il vertice del mar calca sublime e con l'eburnea man del flutto ondoso dal'auree trecce il salso umor s'esprime, gli abitator del pelago spumoso lascian le case lor palustri ed ime e fan, seguendo il lor ceruleo duce, festivi ossequi al'amorosa luce.
138
Palemon d'un delfino il curvo tergo preme, vezzoso e pargoletto auriga, e, balestrando un fuggitivo mergo, fende i solchi del mar per torta riga. Quanti tritoni han sotto l'onde albergo, altri accoppiati in mansueta biga tiran pian pian la conca, ov'ella nacque, altri per altro affar travaglian l'acque.
139
Chi del'obliquo corno a gonfie gote fa buccinar la rauca voce al cielo; chi, per sottrarla al sol che la percote, le stende intorno al crin serico velo; chi, volteggiando con lascive rote, le regge innanzi adamantino gelo e, perché solo in sua beltà s'appaghi, ne fa lucido specchio agli occhi vaghi.
140
Né di scherzar anch'elle infra costoro del gran padre Nereo lascian le figlie, ch'accolte in lieto e sollazzevol coro cantano a suon di pettini e cocchiglie, e porgendo le van succino ed oro, candide perle e porpore vermiglie. Sì fatto stuol per l'umida campagna la riceve, la guida e l'accompagna.
141
Nel'altro vaso del suo figlio Amore il nascimento effigiato splende. Già la vedi languir, mentre che l'ore vicine omai del dolce parto attende, nela bella stagion, quand'entra in fiore la terra e novell'abito riprende. Par che l'alba oltre l'uso apra giocondo il primo dì del più bel mese al mondo.
142
Sovra molli origlieri e verdi seggi la bella dea per partorir si posa. Par che rida la riva e che rosseggi presso il museo fiorito indica rosa. Par che l'onda di Cipro apena ondeggi; danzano i pesci insu la sponda erbosa. Con pacifiche arene ed acque chiare par senza flutto e senza moto il mare.
143
Per non farsi importuni i Zefiretti a quelle dolcemente amare doglie stansi a dormir, quasi in purpurei letti, de' vicini roseti infra le foglie. Colgon l'Aure lascive odori eletti per irrigar le rugiadose spoglie, spoglie bagnate di celeste sangue, dove tanta beltà sospira e langue.
144
Pria che gli occhi apra al sol, le labbra al latte, per le viscere anguste Amor saltante precorre l'ora impetuoso e batte il sen materno con feroci piante e del ventre divin le porte intatte s'apre e prorompe, intempestivo infante. Senza mano ostetrice ecco vien fuori, ed ha fasce le fronde e cuna i fiori.
145
Fuor del candido grembo apena esposto, le guizza in braccio, indi la stringe e tocca. Pigolando vagisce e corre tosto su l'urna manca a conficcar la bocca. Stillan le Grazie il latte, ed è composto di mel, qual più soave Ibla mai fiocca. Parte, alternando ancor balia e mammelle, dale tigri è lattato e dal'agnelle.
146
Stame eterno al bambin le filatrici d'ogni vita mortal tiran cantando. Van mansuete insu que' campi aprici le fere più terribili baccando. Tresca il leone e con ruggiti amici il vezzoso torel lecca scherzando e, con l'unghia sonora e col nitrito, lieto applaude il destriero al suo vagito.
147
Bacia l'agnel con innocente morso acceso il lupo d'amorosa fiamma. La lepre il cane abbraccia e l'ispid'orso la giovenca si tien sotto la mamma. L'aspra pantera insu 'l vergato dorso gode portar la semplicetta damma. E toccar il dragon, benché pungente, del nemico elefante ardisce il dente.
148
Mirasi Citerea, che gli amorosi scherzi ferini di mirar s'appaga, e ride ch'animai tanto orgogliosi sentan per un fanciullo incendio e piaga. Par che sol del cinghial mirar non osi gioco, festa o piacer, quasi presaga, presaga che, per lui tronca una vita, ogni delizia sua le fia rapita.
149
Tal de' vasi è il lavoro, Amor s'appiglia ala maggior dele gemmate coppe, poscia di quello stuol, che rassomiglia le semidee che si cangiaro in pioppe, per farne scaturir pioggia vermiglia ad una con lo stral svena le poppe e fa che dal bel sen per cento spilli odorato licor dentro vi stilli
150
e, tre volte ripiena, ad una ad una tutte sorbille e propinò ridendo; ne bebbe una a Mercurio, a Vener una, una a colui che la distrugge ardendo. Così a ciascun ne dedicò ciascuna: la prima ala Salute offrì bevendo, l'altro vaso di vin colmo e spumoso diede al Piacere e l'ultimo al Riposo.
151
Cento ninfe leggiadre e cento Amori, cento fauni nell'opra abili e destri, quinci e quindi portando e frutti e fiori, son dela bella imbandigion maestri. Qui con purpurea man Zefiro e Clori votan di gigli e rose ampi canestri, là Pomona e Vertunno han colmi e pieni de' lor doni maturi i cesti e seni.
152
Natura dele cose è dispensiera, l'Arte condisce quel ch'ella dispensa. Versa Amaltea, che n'è la vivandiera, del ricco corno suo la copia immensa. Havvi le Grazie amorosette in schiera e loro ufficio è rassettar la mensa; e vigilante infra i ministri accorti il robusto custode havvi degli orti.
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Ogni sergente aprova ed ogni serva le portate apparecchia e le vivande. Altri di man d'Aracne e di Minerva su i tronchi e per lo suol cortine spande. Altri le tazze, accioché Bacco ferva, corona d'odorifere ghirlande. Chi stende insu i tapeti i bianchi drappi, chi vi pon gli aurei piatti e gli aurei nappi.
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Così per Ibla ala novella estate squadra di diligenti api si vede, che le lagrime dolci e dilicate di Narciso e d'Aiace a sugger riede; poi nele bianche celle edificate vanno a ripor le rugiadose prede; altra a comporre il favo ed altra schiera studia dal mele a separar la cera.
155
è tutta in moto la famiglia: or vanno quei che curano il pasto, or fan ritorno. Alcuni Amori a ventilar vi stanno con l'ali aperte e sferzan l'aure intorno. Le quattro figlie del fruttifer'anno, per far intutto il bel convito adorno, recan d'ogni stagion tributi eletti, e son diverse d'abiti e d'aspetti.
156
Ingombra una di lor di fosco velo la negra fronte e la nevosa testa; di condensato e cristallino gelo stringe l'umido crin fascia contesta; qual nubiloso e folgorante cielo minaccia il ciglio torbida tempesta; copre il rugoso sen neve canuta calza il gelido piè grandine acuta.
157
Altra spirando ognor fecondo fiato ride con giovenil faccia serena; un fiorito legame ed odorato la sparsa chioma e rugiadosa affrena; la sua vesta è cangiante e variato iri di color tanti ha il velo apena; va di verde cappello il capo ombrosa, nel cui vago frontal s'apre una rosa.
158
L'altra, che 'ntorno al ministerio assiste, par che di sete e di calore avampi; ispida il biondo crin d'aride ariste, tratta il dentato pettine de' campi; secche anelan le fauci, arsicce e triste fervon le guance, e vibran gli occhi lampi; umida di sudor, di polve immonda odia sempre la spoglia ed ama l'onda.
159
Circonda il capo al'ultima sorella, che quasi calvo è poco men che tutto, un diadema d'intorta uva novella, di cedri e pomi e pampini costrutto, intessuta di foglie ha la gonnella, di fronde il cinto ed ogni groppo è frutto; stilla umori il crin raro e riga intanto di piovosa grondaia il verde manto.
160
Insieme con la diva innamorata Adone ala gran mensa il piè converse. Amor, paggio e scudier, l'onda odorata su le man bianche in fonte d'or gli asperse; Amor scalco e coppier l'esca beata in cava gemma e 'l buon licor gli offerse; Amor del pasto ordinator ben scaltro pose a seder l'un sole a fronte al'altro.
161
Somigliavan duo soli ed ella ed egli, cui non fusser però nubi interposte, e gian ne' volti lor, come in duo spegli, lampeggiando a ferir le luci opposte. Dava costei sovente e rendea quegli di fiamma e di splendor colpi e risposte, e con lucida ecclisse e senza oltraggio s'incontrava e rompea raggio con raggio.
162
Como, dio del piacer, piacevol nume ch'a sollazzi ed a feste è sempre inteso, per mitigar di que' begli occhi il lume e del sole importuno il foco acceso, con due smaltate e gioiellate piume di bel pavon, che tra le mani ha preso, l'aere agitando in lieve moto e lento tra i più fervidi ardor fabrica il vento.
163
Mercurio è quei che mesce e che rifonde nel'auree conche i preziosi vini; Amor rinfresca con le limpid'onde l'idrie lucenti e i vasi cristallini; l'un e l'altro gli terge e poi gli asconde nel più denso rigor de' geli alpini, le vicende scambiando or questo, or quello nel servire or di coppa, or di coltello.
164
Traboccan qui di liquid'oro e gravi di stillato ametisto urne spumanti. Tengon gemme capaci i ventri cavi di rugiada vital colmi e brillanti: sangue giocondo e lagrime soavi che non peste versar l'uve pregnanti, onde di Cipro le feconde viti soglion dolce aggravar gli olmi mariti.
165
La bella dea, di nettare vermiglio rugiadoso cristallo in man si strinse. Libollo, e con dolce atto e lieto ciglio nel bel rubino i bei rubini intinse. Poi di vergogna, il semplicetto giglio violando di rosa, il volto tinse e l'invitò, postogli il vaso innanzi parte a gustar de' generosi avanzi.
166
Il bel garzon, ch'ingordamente assiso presso quell'esca, onde la vita ei prende, tutto dal vago e dilicato viso, l'altra spesso obliando, intento pende e con guardo a nutrir cupido e fiso men la bocca che gli occhi avido intende, v'immerge il labro e vi sommerge il core, e resta ebro di vin, ma più d'amore.
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Mentre son del gran pasto insu 'l più bello, ecco Momo arrivar quivi si vede, Momo critico nume, arco e flagello che gli uomini e gli dei trafige e fiede. Ciò ch'egli cerchi e qual pensier novello tratto l'abbia dal ciel, Vener gli chiede, e perché volentier scherza con esso, sel fa seder, per ascoltarlo, appresso.
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– Vo (rispose lo dio) tra queste piante dela Satira mia tracciando l'orme, dela Satira mia che poco avante ha di me generato un parto informe, parto nele fattezze e nel sembiante sì mostruoso, orribile e difforme che, se non fusse il suo sottile ingegno, lo stimerei di mia progenie indegno.
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Ma la vivacità mio figlio il mostra e lo spirto gentil ch'io scorgo in lui e quelch'è proprio dela stirpe nostra: la libertà del sindicare altrui; onde meco delpar contende e giostra, che pur sempre del vero amico fui e mentir mai non volli e mai non seppi chiuder la lingua tra catene e ceppi.
170
La lingua sua vie più che spada taglia, la penna sua vie più che fiamma coce. Con acuta favella il ferro smaglia e con ardente stil fulmina e noce, né contro i morsi suoi morso è che vaglia, né giova schermo incontro ala sua voce; indomito animale, estranio mostro ch'altro non ha che 'l fiato e che l'inchiostro.
171
Non ha piè, non ha stinchi, ond'ei si regga, ha l'orecchie recise e 'l naso monco. Io non so come scriva e vada e segga, ch'è storpiato e smembrato e zoppo e cionco. Ma benché così rotto egli si vegga ché del corpo gli resta apena il tronco, non pertanto l'audacia in lui si scema, poiché sol dela lingua il mondo trema.
172
Tal qual è, senza piante e senza gambe, ne' secoli futuri e ne' presenti, dele man privo e dele braccia entrambe, l'universo però fia che spaventi. Quai piaghe ei faccia, il saprà ben Licambe che, colto da' suoi strali aspri e pungenti, di desperato laccio avinto il collo, darà di propria man l'ultimo crollo.
173
Gran cose ha di costui Febo indovino e previste e predette agli altri numi. Pronosticò che nome avrà Pasquino, correttor dele genti e de' costumi; che per terror de' principi il Destino gli darà d'eloquenza e mari e fiumi, e ch'imitarlo poi molti vorranno, ma non senza periglio e senza danno.
174
Nemico è dela fama e dela corte, lacera i nomi e d'adular non usa; in ferir tutti è simile ala morte; s'io lui riprendo, egli mestesso accusa con dir che 'l mio dir mal non è di sorte che la malizia altrui resti confusa. Che più? nonch'altri il gran monarca eterno nota, punta, ripicca e prende a scherno.
175
I fanciulli rapiti e le donzelle non sol di rinfacciargli ardisce ed osa, ma pon nel'opre sue divine e belle anco la bocca e biasma ogni sua cosa. Trova degli elementi e dele stelle imperfetta la mole e difettosa, ogni parola impugna, emenda ogni atto e si beffa talor di quanto ha fatto.
176
Dà menda al mar, ch'ha i venti e le tempeste, ala terra, che trema e che vacilla, al'aria, che di nuvoli si veste, ed al foco, che fuma e che sfavilla; appone ala gran machina celeste che maligne influenze infonde e stilla, ch'altra luce si move, altra sta fissa, che la luna è macchiata e 'l sol s'ecclissa.
177
E non pur di colui che 'l tutto regge, ma prende a mormorar dela Natura. Dice ch'altrui vil femina dar legge non dee, né dee del mondo aver la cura. La detesta, la danna e la corregge, e 'l lavoro del'uom tassa e censura, che non diè, che non fè, sciocca maestra, al tergo un occhio, al petto una finestra.
178
Per questo suo parlar libero e schietto Giove dal ciel l'ha discacciato a torto. Gli fè com'al tuo sposo, e per dispetto, se non fusse immortal, l'avrebbe morto. Precipitato dal superno tetto, restò rotto e sciancato e guasto e torto. Ma perché pur co' detti altrui fa guerra, poco meglio che 'n cielo è visto in terra.
179
Su le sponde del Tebro, ov'egli meno credea che 'l vizio e 'l mal regnar devesse, per dar legge al suo dir, ch'è senza freno, tra bontate e virtute albergo elesse, ma non cessò di vomitar veleno, né però più ch'altrove ei tacque in esse; seben malconcio e senza un membro intero provò che l'odio alfin nasce dal vero.
180
Se tu vedessi, o dea, l'aspre ferite ch'ha per tutte le membra intorno sparte, diresti che con Ercole ebbe lite o ch'a guerra in steccato entrò con Marte. Ch'o sien vere l'accuse o sien mentite, ogni grande aborrir suol la nostr'arte e, perdendone alfin la sofferenza, non voglion comportar tanta licenza.
181
Alcun ben vene fu che sene rise e di suo motteggiar poco gli calse, però ch'egli è faceto e 'n varie guise sa novelle compor veraci e false, benché l'arguzie sue giamai divise non sien dale punture amare e salse. Lecca talor piacevolmente e scherza, nondimen sempre morde e sempre sferza.
182
Ma costoro ch'io dico, iquali in pace lo lascian pur gracchiar quant'egli vole, sapendo per natura esser loquace e che pronte ha l'ingiurie e le parole, che per rispetto o per timor non tace e ch'irritato più, più garrir suole, son pochi e rari, ed han sinceri i petti, né temon ch'altri scopra i lor difetti.
183
E certo io non so già, s'è lor concesso gli encomi udir d'adulator ch'applaude, perché non deggian poi nel modo istesso il biasmo tollerar come la laude. E s'ai malvagi è d'operar permesso ogni male a lor grado ed ogni fraude, perché non lice ancor con pari ardire come ad essi di fare, altrui di dire?
184
Io per me, bella dea, perch'altri offeso si tenga del mio dir, scoppiar non voglio; ma né turbarsi già chi n'è ripreso, né sentir ne devria sdegno o cordoglio, perché qualor, pur come foco acceso o rasoio crudel, la lingua scioglio, con pietoso rigor di buon chirurgo arder mostro e ferir, ma sano e purgo.
185
Or essendo il meschino in terra e 'n cielo per tal cagion perseguitato tanto, io, che pur l'amo con paterno zelo, supplico il nume tuo cortese e santo ch'appo la fonte del gran re di Delo, de' cigni tuoi già consacrata al canto, là del'acque immortali insu la riva ti piaccia acconsentir ch'alberghi e viva.
186
Solo in quell'isoletta amena e lieta, che d'ogni insidia è libera e secura, potrà vita menar franca e quieta, e scriver e cantar senza paura. Ei, seben non è cigno, è tal poeta che meritar ben può questa ventura d'esser ascritto infra que' scelti e pochi, ma non sia chi l'attizzi o chi 'l provochi.
187
S'egli avien che talor d'ira s'infiammi, invettive e libelli usa per armi, iambi talor saetta ed epigrammi, talor satire vibra ed altri carmi. Stupir sovente insieme e rider fammi quando vien qualche verso a recitarmi contr'un che celebrar volse il Colombo e d'India, in vece d'or, riportò piombo.
188
Per impetrar da te questa dimanda d'esser ammesso in quel felice coro, una fatica sua bella ti manda, da cui scorger potrai s'ha stil canoro e s'egli degno è pur dela ghirlanda ch'altrui circonda il crin di verde alloro. In questo libro, che qui meco ho io, punge, fuorché te sola, ogni altro dio.
189
Ogni altro dio dala sua penna è tocco, fuorché sol tu, cui sacra il bel presente. Narra gli onor del tuo marito sciocco e qualche prova ancor di quel valente, che, del'asta malgrado e delo stocco, so che del cor t'è uscito e dela mente; e senon ch'oggi ad altro intenta sei, leggerne almeno un saggio a te vorrei. –
190
– Qual trastullo maggior (Ciprigna disse) dar ne potresti infra quest'ozi nostri, che farne udir di lor quanto ne scrisse spirto sì arguto in suoi giocosi inchiostri? Qual cosa, che più grata or ne venisse, esser potea del'opera che mostri? Ma per meglio ascoltar ciò che tu leggi, ti vogliam dirimpetto ai nostri seggi. –
191
Allor tra varia turba ascoltatrice assiso incontro ai duo beati amanti, d'oro fregiato l'orlo e la cornice si pose Momo un bel volume avanti. Le vergogne del cielo, il titol dice; e diviso è il poema in molti canti, ma fra molti un ne sceglie, indi le rime, in questa guisa incominciando, esprime:
192
– Più volte ai dolci lor furti amorosi ritornati eran già Venere e Marte, credendo a tutti gli occhi esser ascosi, tanta avean nel celarsi industria ed arte; ma il Sol, che i raggi acuti e luminosi manda per tutto e passa in ogni parte, nela camera entrò che 'n sé chiudea lo dio più forte e la più bella dea.
193
Veggendogli d'amor rapire il frutto seno a seno congiunti e labro a labro, tosto a Vulcano a riferire il tutto n'andò nel'antro affumigato e scabro. Batter sentissi al caso indegno e brutto, vie più grave e più duro il torto fabro di quelch'egli adoprava in Mongibello, su l'incudin del core altro martello.
194
Non fu già tanto il Sol col divin raggio mosso per zelo a palesar quell'onte, quanto per vendicar con tale oltraggio la saetta ch'uccise il suo Fetonte, che, quando al troppo ardito e poco saggio garzon, ch'ei tanto amò, ferì la fronte, non men ch'al figlio il corpo, al genitore trafisse di pietà l'anima e 'l core.
195
Poiché distintamente il modo e 'l loco del'alta ingiuria sua da Febo intese, nel petto ardente delo dio del foco foco di sdegno assai maggior s'accese. Temprar nel'ira sua si seppe poco colui che tempra ogni più saldo arnese. De' fulmini il maestro al'improviso fulminato restò da quell'aviso.
196
Vassen là dove de' ciclopi ignudi ala fucina il rozzo stuol travaglia. Fa percosse sonar le curve incudi, dà di piglio ala lima, ala tanaglia, e ponsi a fabricar con lunghi studi pieghevol rete di minuta maglia. D'un infrangibil filo adamantino la lavorò l'artefice divino.
197
Di quel lavor la maestria fabrile se sia diamante o fil mal s'argomenta. Non men che forte egli l'ordì sottile, la fè sì molle e dilicata e lenta che di filar giamai stame simile l'emula di Minerva indarno tenta e, quantunque con man si tratti e tocchi, invisibil la trama è quasi agli occhi.
198
Con arte tale il magistero è fatto ch'ancorch'entrino i duo tra que' ritegni, purché non faccian sforzo inquanto al tatto, non si discopriran gli occulti ingegni. Ma se verran con impeto a quell'atto che suol far cigolar dintorno i legni, tosto che 'l letto s'agita e scompiglia la rete scocca e al talamo s'appiglia.
199
Uscito poi dela spelonca nera zoppicando sen corre a porla in opra. Nela stanza l'acconcia in tal maniera ch'impossibil sarà che si discopra. Ne' sostegni di sotto ala lettiera, nele travi del palco anco disopra, per le cortine in giro ei la sospende e tra le piume la dispiega e stende.
200
Quand'egli ha ben le benconteste sete disposte intorno in sì sagaci modi che discerner alcun dele secrete fila non può gl'insidiosi nodi, lascia l'albergo e, dela tesa rete dissimulando le nascoste frodi, spia l'andar degli amanti e 'l tempo aspetta dela piacevol sua strana vendetta.
201
Usò per affidargli astuzia e senno, senza punto mostrar l'ira che l'arse. Fè correr voce ch'ei partia per Lenno, e 'l grido ad arte per lo ciel ne sparse. Udita la novella, al primo cenno nel loco usato vennero a trovarse, e per farlo di dio divenir bue, nel dolce arringo entrarono ambidue.
202
Sì tosto che la cuccia il peso grave de' duo nudi campioni a premer viene, prima ch'ancor si sieno ala soave pugna amorosa apparecchiati bene, la machinata trappola la chiave volge che porge il moto ale catene, fa suo gioco l'ordigno e 'n que' diletti rimangono i duo rei legati e stretti.
203
L'ordito intrico in guisa tal si strinse e sì forte dintorno allor gl'involse che per scoter colui non sene scinse, per dibatter costei non sene sciolse. Or, poich'entrambo aviticchiati avinse e 'n tal obbrobrio a suo voler gli colse, del'aguato in cui stava uscito il zoppo, prese la corda ov'atteneasi il groppo.
204
Dela perfida rete il capo afferra, indi del chiuso albergo apre le porte, tira le coltre, il padiglion disserra, e convoca del ciel tutta la corte e, col re de' guerrieri entrata in guerra scoprendo lor la disleal consorte avinta di durissima catena, fa dele proprie infamie oscena scena.
205
"Deh, venite a veder se più vedeste, (altamente gridava) opre mai tali. L'eroe divino, il capitan celeste, ditemi, è quegli là, divi immortali? l'imprese sue terribili son queste? questi i trofei superbi e trionfali? Ecco le palme gloriose e degne, le spoglie illustri e l'onorate insegne.
206
Gran padre e tu che l'universo reggi, vienne a mirar la tua pudica prole. Così serba Imeneo le sacre leggi? tali ignominie il ciel permetter suole? E che fa dunque Astrea negli alti seggi, se punir i colpevoli non vole? Son cose tollerabili? son atti degni di deità scherzi sì fatti?
207
Ama la figlia tua questo soldato sano, gagliardo e di giocondo aspetto, e perché va pomposo e ben ornato, di giacersi con lui prende diletto. Schiva il mio crin malculto e rabbuffato, del mio piè diseguale odia il difetto, l'arsiccio volto aborre e con disprezzo mi schernisce talor, s'io l'accarezzo.
208
Se zoppo mi son io tal qual mi sono, Giove e Giunon, mi generaste voi; e generato forse agile e buono, perché dal ciel precipitarmi poi? Se pur volevi, o gran rettor del tuono, sotto giogo perpetuo accoppiar noi, non devevi così prima sconciarmi o non devevi poi genero farmi.
209
La colpa non è mia dunque se guasti del piede i nervi e le giunture ho rotte; se rozzo e senza pompe e senza fasti tinta ho la faccia di color di notte, tu sei che colaggiù mi confinasti abitator dele sicane grotte. Ma s'ancor quivi io ti ministro e servo, non meritai di trasformarmi in cervo.
210
Deve per questo la mia bella moglie, bella ma poco onesta e poco fida, qualora a trarsi le sfrenate voglie cieco appetito la conduce e guida, punto ch'io metta il piè fuor dele soglie e da lei m'allontani e mi divida, puttaneggiando dentro il proprio tetto, disonorare il marital mio letto?
211
Deve per tuttociò negli altrui deschi cibo cercar la meretrice infame, dovunque il figlio a satollar l'adeschi del'ingorda libidine le brame? Io pur al par de' più robusti e freschi credo vivanda aver per la sua fame, ché dove un membro è difettoso e manca, altra parte supplisce intera e franca.
212
Ma non so se 'n tal gioco averrà mai ch'ella più mi tradisca e che m'offenda. Così, perfida e rea, così farai de' tuoi dolci trastulli amara emenda, finché la dote, ond'io stolto comprai le mie proprie vergogne, a me si renda. Poi per commun quiete il re superno vo' che faccia tra noi divorzio eterno.
213
Or mirate, vi prego,alme divine, gli altrui congiunti ai vituperi miei, s'io fui ben cauto e s'io fui buono alfine uccellatore e pescator di dei. Dite s'anch'io so far prede e rapine, come l'empio figliuol sa di costei. Veggiasi chi di noi mastro più scaltro sia di reti e di lacci o l'uno o l'altro.
214
So che lieve è la pena e che 'l mio torto vie più palese in tal castigo appare; ma le corna ch'ascose in grembo porto vo' pormi in fronte manifeste e chiare, purch'io riceva almen questo conforto di far la festa publica e vulgare. Voglio la parte aver del piacer mio e, poiché ride ognun, ridere anch'io".
215
Mentr'ei così dicea, tutti coloro ch'ala favola bella eran presenti il teatro del ciel facean sonoro con lieti fischi e con faceti accenti, e diceano, additandogli fra loro, di sì novo spettacolo ridenti: "Ve' come il tardo alfin giunse il veloce, ve' come fu dal vil domo il feroce".
216
O quanti fur dei giovinetti, o quanti, ch'inaviditi di sì dolce oggetto, in rimirando i duo celesti amanti che staccar non potean petto da petto, vie più d'invidia assai tra' circostanti che di riso in quel punto ebber suggetto, e per participar di que' legami curato non avrian d'esser infami.
217
Recato avriansi a gran ventura molti spettatori del caso e testimoni più volentieri allor, ch'esser disciolti, come lo dio guerrier farsi prigioni. Restar tra nodi sì soavi involti voluto avrian, non ch'altri, i duo vecchioni, Titon dico e Saturno, i freddi cori accesi anch'essi d'amorosi ardori.
218
Pallade e Cinzia, verginelle schive, tenner gran pezza in lor lo sguardo fiso, poi da cose sì sozze e sì lascive torser in là, tinte di scorno, il viso. Giunon, diva maggior del'altre dive, non senza un gentilissimo sorriso coprissi il ciglio con la man polita, ma giocava con l'occhio infra le dita.
219
Vergognosetta d'un ludibrio tanto la dea d'amor, chi membri alabastrini non avea da coprir velo né manto tenea bassa la fronte e gli occhi chini. Intorno al corpo immacolato intanto sparsi i cancelli de' legami fini, craticolando le sembianze belle, diviso aveano un sole in molte stelle.
220
Bravò lo dio del ferro e si contorse, quando il forte lacciuol prima annodollo, romper col suo valor credendo forse e stracciar que' viluppi ad un sol crollo, ma poiché prigioniero esser s'accorse, né poterne ritrar le braccia e 'l collo, anch'ei, benché di rabbia enfiato e pieno, a pregar cominciò, come Sileno.
221
Vulcan tien tuttavia la rete chiusa, né scioglie il nodo, né rallenta il laccio ché l'infida moglier così delusa vuol ch'ivi al drudo suo si resti in braccio. Intercede ciascuno, ed ei ricusa di liberargli dal noioso impaccio. Pur del vecchio Nettun consente a' preghi che la coppia impudica alfin si sleghi.
222
Dassi alo dio che nele piante ha l'ale cura d'aprir quell'ingegnosa gabbia, ed ei non intraprende ufficio tale per cortesia, né per pietà che n'abbia, ma perché del'adultera immortale, che di vergogna e di dispetto arrabbia, sciogliendo il nodo che l'avolge e chiude, spera palpar le belle membra ignude.
223
Oltre che d'acquistarsi ei fa disegno l'arredo indissolubile e tenace, dico la rete che con tanto ingegno fu già d'Etna tessuta ala fornace, solo per poter poi con quel ritegno prender per l'aria Cloride fugace, Cloride bella, che volando suole precorrer l'alba alo spuntar del sole.
224
Scatenato il campion con la diletta, l'una piangea de' vergognosi inganni, minacciò l'altro con crudel vendetta di ristorar d'un tant'affronto i danni. Sorsero alfin confusi e per la fretta insieme si scambiar l'armi co' panni: questi il vago vesti, quelle l'amica, Marte la gonna e Vener la lorica. –
225
Volea l'istoria del successo intero Momo seguir, poiché fur colti in fallo, e dir come di giovane guerriero fu trasformato Alettrione in gallo, che del duce di Tracia essendo usciero, guernito d'armi e carco di metallo, qual fida spia, qual sentinella accorta, fu da lui posto a custodir la porta.
226
Ma perché 'l sonno il vinse e non ben tenne per guardarsi dal sol la mente desta, tal qual trovossi apunto, augel divenne con lo sprone al tallon, con l'elmo in testa. I ricchi arnesi si mutaro in penne, il superbo cimier cangiossi in cresta, ed or, meglio vegghiando in altro manto accusa il suo venir sempre col canto.
227
E questo ed altro ancor legger volea, ma sdegnoso girò Venere il guardo e per lanciarlo un nappo alzato avea e 'l colpia, s'a fuggire era più tardo. – Sfacciato detrattor! (disse la dea) così mi loda il tuo figliuol bugiardo? Canti le proprie, e non l'altrui vergogne, inventor di calunnie e di menzogne. –
228
Di ciò Mercurio, che con gli altri intorno stavalo ad ascoltar, si rise molto, e quando la mirò d'ira e di scorno, più che foco soffiato, accesa in volto, di quel selvaggio e rustico soggiorno desviando l'amico entro il più folto, il sottrasse al furor del'alta diva, che ne fremea di rabbia e n'arrossiva.
229
Era quivi Talia fra l'altre ancelle, per come Citerea nata da Giove, che le Grazie e le Muse avea sorelle, una dele tre dive e dele nove. Più soave di lei tra queste o quelle o la lingua o la mano altra non move; Talia, ninfa de' mirti e degli allori, Talia, dotta a cantar teneri amori.
230
Costei d'avorio fin curvo stromento recossi in braccio e, giunta innanzi a loro, degli aurei tasti in suon dimesso e lento tutto pria ricercò l'ordin sonoro, indi con pieno, chiaro, alto concento scoccò dolce canzon dal'arco d'oro, e fur pungenti sì, ma non mortali le note a chi l'udi, ferite e strali.
231
Saggia Talia, che 'nsu 'l fiorir degli anni fosti de' miei pensier la cura prima e meco i molli e giovenili affanni, non senza altrui piacer, cantasti in rima, tu lo mio stile debile su i vanni al ciel solleva, onde i tuoi detti esprima; sveglia l'ingegno e con celeste aita movi al canto le voci, al suon le dita.
232
– Amor è fiamma che dal primo e vero foco deriva e 'n gentil cor s'apprende e, rischiarando il torbido pensiero, altrui sovente il desir vago incende, e scorge per drittissimo sentiero l'anima al gran principio, ond'ella scende, mostrandole quaggiù quella che pria vide lassù bellezza e leggiadria.
233
Amor, desio di bel, virtù che spira sol dolcezza, piacer, conforto e pace, toglie al cieco Furor l'orgoglio e l'ira, gli fa l'armi cader, gelar la face. Il forte, il fier che 'l quinto cerchio aggira ale forze d'Amor vinto soggiace. Unico autor d'ogni leggiadro effetto, sommo ben, sommo bel, sommo diletto.
234
Ardon là nel beato alto soggiorno ancor d'eterno amor l'eterne menti. Son catene d'amor queste, che 'ntorno stringon sì forte il ciel, fasce lucenti. E questi lumi che fan notte e giorno son del lor fabro Amor faville ardenti. Foco d'amor è quel ch'asciuga in cielo ala gelida dea l'umido velo.
235
Ama la terra il cielo e 'l bel sembiante mostra ridente a lui che l'innamora, e sol per farsi cara al caro amante s adorna, il sen s'ingemma, il crin s'infiora; i vapor dale viscere anelante, quasi a lui sospirando, essala ognora. I rauchi suoni, i crolli impetuosi gemiti son d'amor, moti amorosi.
236
Né già l'amato cielo ama lei meno, che con mill'occhi sempre la vagheggia; a lei piagne piovoso, a lei sereno ride, e sospira a lei quando lampeggia; irrigator del suo fecondo seno, in vicende d'amor seco gareggia e fa ch'ella poi gravida germoglie piante e fior, frutti e fronde, erbette e foglie.
237
Qual sì leggiero o sì veloce l'ale spiega per l'ampio ciel vago augelletto, cui del'alato arcier l'alato strale e non giunga e non punga insieme il petto? Qual pesce guizza in freddo stagno, o quale cova de' fiumi il cristallino letto, cui non riscaldi amor, ch'entro per l'onde vivi del suo bel foco i semi asconde?
238
Nel mar, nel mare istesso, ove da Teti ebbe la bella madre umida cuna, più che del pescator, d'amor le reti han forza, e regna amor più che fortuna. E perché da' pittori e da' poeti ignudo è finto e senza spoglia alcuna, senon perché sott'acqua a nuoto scende e del suo foco i freddi numi accende?
239
Segue il suo maschio per le vie profonde la smisurata e ruvida balena. Va dietro ala sua femina per l'onde ondeggiando il delfin con curva schiena. Qui con lingua d'amor muta risponde al'angue lusinghier l'aspra murena. Là con nodi d'amor saldi e tenaci porge una conca al'altra conca i baci.
240
Amano l'acque istesse: elle sen vanno al fonte original, ch'a sé le 'nvita, e s'al bel corso, che lasciar non sanno, è precisa la via, piana e spedita, tal con forza amorosa impeto fanno che s'apron rotti gli argini l'uscita. In seno il mar l'accoglie e 'n lor trasfonde prodigamente il proprio nome e l'onde.
241
Ricetta il tortorel con la compagna, bello essempio di fede, un ramo, un nido, e se l'un poi vien men, l'altra si lagna e fere il ciel di doloroso strido. La colomba gentil non si scompagna dal consorte giamai diletto e fido; coppia in cui si mantien semplice e pura l'innocenza d'amore e di natura.
242
Teme il cigno d'amor la face ardente vie più che 'l foco del'eterna sfera, e più d'amor l'artiglio aspro e pungente, che del'aquila rapida e guerrera. L'aquila ancor, del fulmine possente ministra e d'ogni augel reina altera, noi teme meno, anzi d'altrui predace, fatta preda d'amor, d'amor si sface.
243
Il fier leon con la leonza invitta amor sol vince ed al suo giogo allaccia. Più dal'aurato stral geme trafitta l'orsa crudel che dalo spiedo in caccia. Fa vezzi al tigre suo la tigre afflitta, loqual co' piè levati alto l'abbraccia. Posa il destrier non trova e par che piene sol del foco del core abbia le vene.
244
Spira accesa d'amor tosco amoroso la vipera, peggior d'ogni altra biscia; ella per allettar l'aspe orgoglioso d'oro si veste e 'ncontr'al sol si liscia; corregli in grembo e lo scaldato sposo seco insieme si stringe e seco striscia; son baci i morsi, e sì gl'irrita amore che di piacer l'un morde e l'altro more.
245
Dal suo monton non lunge, a piè d'un lauro, mentr'ei pugna per lei, stassi l'agnella, e per dargli al travaglio alcun restauro, se riede vincitor, gli applaude anch'ella. Arde il robusto e giovinetto tauro per la giovenca sua vezzosa e bella, e ne' tronchi per lei l'armi ritorte aguzza e sfida il fier rivale a morte.
246
Nonch'altro i tronchi istessi, i tronchi, i tralci senton dolci d'amor nodi e ferite. Chi può dir com'agli olmi e com'ai salci l'edra sempre s'abbarbichi e la vite? E chi non sa che, se con scuri o falci da spietato boschier son disunite, lagrimando d'amor così recise, si lagnan dela man che l'ha divise?
247
Fronda in ramo non vive o ramo in pianta cui non sia dato entro la ruvid'alma sentir quella virtù feconda e santa che con nodo reciproco le 'ncalma. Con sibili amorosi amor si vanta far sospirare il frassino e la palma. Baciansi i mirti, e con scambievol groppo alno ad alno si sposa e pioppo a pioppo.
248
Ma qual sì dura o gelida si trova cosa quaggiù che ferro agguagli o pietra? la pietra e 'l ferro ancor baciansi a prova, né dal rozzo seguace ella s'arretra. Da viva pietra, ov'altri il tratti e mova, vive d'amor faville il ferro spetra, e 'l ferro istesso intenerito e molle in fucina d'amor s'incende e bolle.
249
S'amor dunque sostegno è di natura, s'amor è pace d'ogni nostra guerra, s'ale forze d'amor forza non dura, se le glorie d'amor meta non serra, se la virtù del'amorosa arsura in ciel regna, in abisso, in mare, in terra, qual fia, che non adori, alma gentile le catene d'amor, l'arco e 'l focile? –
250
Mentre la Musa in stil leggiadro e grave fea con maestra man guizzar le corde e ne traea di melodia soave al'armonico ciel tenor concorde, su per gli eburnei bischeri la chiave volgendo, per temprar nervo discorde, un per caso ne ruppe e sì le spiacque ch'appese il plettro a un ramoscello e tacque.
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