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ilmarino testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #
CANTO NONO
La fontana d'Apollo
ALLEGORIA
Nella persona di Fileno, nome derivato dall'amore il poeta descrive sestesso con gran parte degli avvenimenti della sua vita. Fingesi pescatore per aver egli il primo, almeno in quantità, composte in volgar lingua poesie marittime. La fontana d'Apollo in Cipro altro non importa che la copia della vena poetica, laquale oggidì sovrabonda pertutto, massime in materie liriche ed amorose. L'armi intagliate in essa son simulacri di nove famiglie d'alcuni prencipi principali d'Italia, protettori delle muse italiane, cioè Savoia, Este, Gonzaga, Rovere, Farnese, Colonna, Orsino e precisamente Medici, sicome l'insegna de' gigli scolpita a piè d'Apollo istesso rappresenta lo scudo della casa reale di Francia. La lite de' cigni esprime il concorso d'alcuni buoni poeti toscani che gareggiano nella eccellenza, cioè il Petrarca, Dante, il Boccaccio, il Bembo, il Casa, il Sannazaro, il Tansillo, l'Ariosto, il Tasso ed il Guarini. Nel gufo e nella pica si adombrano qualche poeta goffo moderno e qualche poetessa ignorante.
ARGOMENTO
Vanno al fonte d'Apollo i fidi amanti, mirano l'armi de' più degni eroi; quivi in forma di cigni ascoltan poi de' toscani poeti i versi e i canti.
1
Occhi, in cui nutre Amor fiamma gentile ond'io quest'alma in vital rogo accesi, volgete, prego, ala mia cetra umile, mentre al canto l'accordo, i rai cortesi. Voi mi deste l'ingegno e voi lo stile, da voi le carte a ben vergare appresi, e se v'ha stilla di purgato inchiostro, prende sol qualità dal nero vostro.
2
Voi siete i sacri fonti, ove per bere corro sovente e gli arsi spirti immergo. Sotto i begli archi dele ciglia altere, più ch'al'ombra de' lauri, i fogli vergo; ch'aver ben denno entro le vostre sfere, poiché v'abita il sol, le Muse albergo, e sento con favor pari ala pena, donde nasce l'ardor, piover la vena.
3
Altri colà, dove Parnaso al cielo erge in due corna le frondose cime, per coronarsi del più verde stelo sudi a poggiar per calle erto e sublime. Io sol del vostro altero orgoglio anelo su'l monte alpestro a sollevar le rime, e vo' che 'l guiderdon de' miei sudori sia corona di mirti e non d'allori.
4
Amor solo è il mio Febo ed Amor solo con l'arco istesso onde gli strali ei scocca, perché la gloria si pareggi al duolo, dela mia lira ancor le corde tocca. Dal'ali del pensier che spiega il volo là donde poi qual Icaro trabocca, anzi pur dala sua, svelse la penna con cui scrivo talor quant'ei m'accenna.
5
Se fossi un degli augei saggi e canori, ch'oggi innanzi ala dea vengono in lite e 'n que' vitali e virtuosi umori osassi d'attuffar le labra ardite, io spererei non pur de' vostri onori note formar men basse o più gradite, ma con stil forse, a cui par non rimbomba, cangiar Venere in Marte, il plettro in tromba;
6
e 'l duce canterei famoso e chiaro che, di giusto disdegno in guerra armato, vendicò del Messia lo strazio amaro nel sacrilego popolo ostinato; e canterei col Sulmonese al paro il mondo in nove forme trasformato; ma poich'a rozzo stil non lice tanto, seguo d'Adone e di Ciprigna il canto.
7
Ecco già dala porta aurea del mondo dele fiamme minori il sommo duce, coronato de' raggi il capo biondo, esce sui monti a publicar la luce. Gli fa festa Natura e dal fecondo grembo erbette la terra e fior produce. L'Alba il corteggia e 'n queste parti e 'n quelle gli fan per tutto il ciel piazza le stelle.
8
Poich'amboduo di quel piacer divino han cibato il desio, ma non satollo, sorgon col sole e prendono il camino verso il fonte mirabile d'Apollo. Giungon là, dove chiaro e cristallino stagna un laghetto, insieme a bracciacollo, cinto d'un prato, che di fior novelli serba in ogni stagion mensa agli augelli.
9
Stranio carro era qui di gemme adorno in sembianza di barca al lido avinto. Quel dela bionda Aurora o quel del giorno e di materia e di lavor n'è vinto. Gran compassi ha di perle e i chiodi intorno tutti son di diamante e di giacinto. Il vaso tutto è d'una conca intera, ch'apre il capace ventre in mezza sfera.
10
Altra di questa mai forse Nereo non vide opra maggior di meraviglia o nel ricco Oceano o nel'Egeo, dala cerulea Teti ala vermiglia. Nacque del fertilissimo Eritreo, prodigio di natura, unica figlia. L'Arte i fregi v'aggiunse e l'orlo e 'l giro le 'ncoronò d'oriental zaffiro.
11
Su basi di smeraldo e di rubino talamo ben guernito in mezzo stassi; i seggi intorno ha di topazio fino, d'ametisto indian le rote e gli assi; duo mostri il tranno: han d'uomo e di delfino questi le membra e d'ambo un misto fassi; umana forma ha quella parte ch'esce del'acque, il deretan termina in pesce.
12
Così talor vid'io pianta feconda quinci e quindi spiegar varia la chioma, s'avien ch'arte cultrice in lei confonda l'uve natie con l'adottive poma; ché, mescolando il pampino e la fronda, curva le verdi braccia a doppia soma, onde congiunte inun vagheggia Autunno le ricchezze di Sacco e di Vertunno.
13
Una, i' non saprei dir se ninfa o diva, dal tronco, ov'è legato, il carro slega, e dritto, ov'è la coppia, inver la riva le redine rivolge e 'l corso piega. Poi con favella affabile e festiva la ricca poppa ad aggravar lor prega. Idrilia ha nome e già la bella salma introdotta nel legno, il legno spalma.
14
Per la tranquilla e placida peschiera ne vanno insieme a tardo solco e lento, dove guizzano i pesci a schiera a schiera quasi in ciel cristallin stelle d'argento. Adon l'amenità dela costiera e dela conca i fregi ammira intento, e la bella nocchiera invitatrice, mentre siede al timon, così gli dice:
15
– La machina, signor, dov'entro or sei, fu del fabro di Lenno alto sudore. Con questa in grazia venne e di costei, ch'è la madre d'Amor, comprò l'amore. Per trarla ai poco amabili imenei questa in dono l'offerse inun col core. Nettuno aggiunse ai preziosi doni, vago poi di piacerle, i duo tritoni.
16
Né sol, come tu vedi, in acqua è nave, ma carro, ov'ella il voglia, in aria e 'n terra. Spinta talor da dolce aura soave per le piagge del mar trascorre ed erra. Talor, lasciando l'elemento grave, quand'ella il volo al terzo ciel disserra, v'accoppia e scioglie ai zefiri benigni le dipinte colombe o i bianchi cigni. –
17
Così ragiona e 'ntanto attorce e stende contesti di fin or serici stami, ond'ai figli del'acque ordisce e tende minuti e sottilissimi legami. Ma mentre appresta il calamo ed intende, pescatrice leggiadra, a trattar gli ami, Amor con altro laccio e con altr'esca di Ciprigna e d'Adon l'anime pesca.
18
In un scoglio approdò la navicella che quasi isola siede al lago in grembo. Questo non osò mai ferir procella, teme ogni austro appressarlo ed ogni nembo, né sentì mai latrar fervida stella, né d'algente pruina asperse il lembo ma sprezza, avampi Sirio o tremi Cauro, l'inclemenza del Cancro e del Centauro.
19
Sporge la curva riva infuor due braccia e forma un semicircolo capace, dove quando il ciel arde e quando agghiaccia sempre ha lo stagno inalterabil pace. Placido quivi e con serena faccia la dea bella imitando il vento tace, e vi fan l'acque aprova e gli arboscelli ai pesci padiglion, specchio agli augelli.
20
Fiori e conche un sol margine confonde, erba e limo congiunge un sol confine; spiegano l'alghe e spiegano le fronde in un sito commune il verde crine. Tra smeraldi e zaffir l'ombre con l'onde scherzano gareggiando assai vicine; ed han commercio insu le ripe estreme le verdi dee con le cerulee insieme.
21
O quante volte, allor che rosso e biondo ride in braccio ala vite il lieto dio, dal'arenoso suo gelido fondo la vezzosa nereida al lido uscìo, e sotto il velo, onde ricopre il mondo la madre del silenzio e del'oblio, con pampini asciugando i membri molli rapì l'uve mature ai dolci colli.
22
Quante cadder tra perle e tra coralli i pomi che pendean poco lontani e la vendemmia accolsero i cristalli, già di vivo rubin gravida i grani. Spesso, strisciando per gli ondosi calli, sdrucciolaste nel'acque, o dei silvani; spesso voi, fauni, entro le chiare linfe correste ad abbracciar l'umide ninfe.
23
Loco soviemmi aver veduto ancora, senon quanto è su 'l fiume, apunto tale là dove trae la bella Polidora dala Dora e dal Po nome immortale, del'augusto signor ch'Augusta onora delizia serenissima e reale; e vi vidi sovente in ricche scene celebrar liete danze e liete cene.
24
Su per la riva i lucidi secreti del bel lago spiando, ignudi cori van di fanciulli lascivetti e lieti, anzi di lieti e lascivetti Amori. Chi fuor del'onde trae con lacci e reti chi con tremula canna il pesce fuori, altri con lunghe fila e ferri adunchi altri con gabbie di contesti giunchi.
25
Qui venne a scaricar l'onda tranquilla del suo bel peso la barchetta estrana; qui scesero a veder quella che stilla dotto licor sì celebre fontana; Vulcan, divino artefice, scolpilla e vinse in essa ogni scultura umana. Così grato esser volse al biondo dio quando i celesti adulteri scoprio.
26
Febo poi tanto di sua grazia infuse in quel marmoreo e limpido lavacro che la virtù poetica vi chiuse del suo furor meraviglioso e sacro; e 'n compagnia dele canore Muse, di cui tutte v'è sculto il simulacro, sovente visitandolo, con esso suol le rive cangiar del bel Permesso.
27
L'onda intanto gorgoglia ed ecco allora sirenetta leggiadra in alto s'erge e, veduta colei cui Cipro adora, un'altra volta poi si risommerge; la man carca di perle indi vien fora e 'l bel lido vicin tutto n'asperge, perle rapite al'ostriche native vie maggior dele noci e del'olive.
28
Disse la dea: – Se pur di perle mai fia ch'avaro talento il cor ti tocchi, a tua voglia sbramar qui ben potrai l'appetito vulgar degli altri sciocchi. Per me non ne chegg'io; n'han pur assai la tua bocca ridente e i miei trist'occhi. E se nulla curiam fregi men belli, restinsi cibo a' miei lascivi augelli.
29
Sappi che di ricchissime rugiade l'India, l'Arabia, Eritra e Taprobana tanta copia non hanno o Paro o Gade, o d'austro il mare o il mar di tramontana, quanta in queste felici alme contrade ne versa ognor del ciel grazia sovrana; poscia in minuti globi il sol le 'ndura e son de' miei colombi esca e pastura.
30
Le perle, perché son d'egual bianchezza, ama la schiera immacolata e bianca. Così quello splendor, quella finezza, ch'ai lor primi natali in parte manca, con doppia luce e con maggior bellezza nel lor ventre s'adempie e si rinfranca, e le rimandan fuor con gli escrementi più perfette, più pure e più lucenti.
31
Il coro poi, ch'è d'adornarmi avezzo, dele mie vaghe e leggiadrette ancelle, per fabricar pendente o compor vezzo, sceglie tra lor le più polite e belle; ed io più ch'altra una tal pompa apprezzo perché la stirpe lor vien dale stelle e del cielo e del mare hanno il colore là dove nacque e dove regna Amore.
32
Sì per lo generoso alto concetto, la cui primiera origine è celeste, sì per la gran virtù del bell'oggetto, possente a confortar l'anime meste, sì perché lo splendor reca diletto, sogliomi compiacer forte di queste. Queste diero la cuna al nascer mio, queste per barca e carro ancor vols'io.
33
Quando l'Aurora il suo purpureo velo lava con l'onda chi fioretti aviva, di mattutino umor piove dal cielo picciola stilla in temperata riva e condensata in rugiadoso gelo, l'accoglie in cavo sen conca lasciva, del cui seme gentil vien poi produtto, pari ala madre sua, candido frutto.
34
Quel soave licor, ch'avida beve, è seme, onde tal prole al mondo nasce, ed è latte in un punto, onde riceve virtù, che 'l parto suo nutrica e pasce. La propria spoglia dilicata e lieve l'avolge quasi in argentate fasce, e con la purità de' suoi splendori vince del'alba i luminosi albori.
35
Pregiasi molto in lor l'esser sincere e d'un candor di nulla macchia offeso, né la grossezza men, pur che leggiere non abbian pari ala misura il peso. Quella forma è miglior che con le sfere più si conforma, ond'ogni lume han preso; e quelle son tra lor le più lodate che soglion per natura esser forate.
36
Ma però ch'ogni bella e ricca cosa con gran difficoltà sempre s'acquista, questa sì cara preda e preziosa con la fatica e col periglio è mista. Stassene parte entro l'albergo ascosa la perla, e parte esposta al'altrui vista; su l'orlo del covil che la ricetta ala rapina il pescatore alletta.
37
L'ingordo pescator, ch'aperte scorge le fauci allor dela cerulea bocca, stende la destra,ahi temerario! e sporge troppo a sì nobil furto incauta e sciocca, però che come prima ella s'accorge che man rapace il suo tesor le tocca, comprimendo gelosa il proprio guscio, dela casa d'argento appanna l'uscio.
38
Con tanta forza l'affilato dente stringe in un punto la mordace conca, che tanaglia o coltel forte e tagliente men gagliardo e men ratto afferra o tronca. Restan l'audaci dita immantenente recise del meschin nela spelonca, ben giusta pena alo sfrenato ardire del troppo avaro e cupido desire.
39
Costei però, che n'arricchì l'arene, tutte sa di tal pesca e l'arti e i modi, e del pesce brancuto apprese ha bene le scaltre insidie e l'ingegnose frodi, quando il sasso tra' nicchi a metter viene, che son del'altrui viscere custodi, onde passa securo entro la scorza la sua nemica a divorar per forza.
40
Quindi suole avenir che la cocchiglia, nel cui grembo si cria la margarita, quando vede la man che già la piglia, spesso il castor perseguitato imita, e dela bianca sua lucida figlia, che generata ha sì, non partorita, fa prodiga a colei di cui ragiono di spontaneo voler libero dono.
41
E se saver vuoi pur chi costei sia ch'è destinta ad abitar quest'acque, figlia fu d'Acheloo che 'n compagnia di due gemelle sue d'un parto nacque; ma da fortuna ingiuriosa e ria la coppia a lei congiunta oppressa giacque, e ch'ella sol giungesse a queste sponde fu grazia mia che signoreggio l'onde.
42
Gli altri duo del Tirren mostri guizzanti eran di qualità simili a questo, attrattivi negli atti e ne' sembianti, donne il petto e la faccia e coda il resto, soavissimo rischio a' naviganti, doloroso piacer, scherzo funesto, il cui cantar ne' salsi ondosi regni era morte a' nocchier, naufragio a' legni.
43
Ma poich'ogni arte lor vinse e deluse di là passando il peregrin sagace, quando con cera impenetrabil chiuse le caute orecchie al'armonia tenace, d'ira arrabbite e di dolor confuse le disperse del mar l'onda rapace, e, salvo questa che campò per sorte, per disperazion si dier la morte.
44
Dele tre mezzo pesci e mezzo dive quella che 'n questo mar gittata venne qui, come vedi, immortalmente vive: ciò per pietà dal mio gran nume ottenne. L'altre per vari lidi e varie rive corser, né so ben dir ciò che n'avenne. So ben ch'una di lor dal'onde spinta presso Cuma e Pozzuol rimase estinta
45
e, trasportata a quella nobil sede, miglior che 'n vita in morta ebbe ventura, perché de' Calci il popolo le diede il paradiso mio per sepoltura. Dico il lieto paese, ove si vede sì di sestessa innamorar Natura, a cui cinto di colli il mar fa piazza, ch'a Nettuno è teatro, a Bacco è tazza.
46
Dal'ossa dela vergine canora, che 'n quel terren celeste ebbe l'avello, spirto di melodia pullula ancora, quasi d'antico onor germe novello. Più d'una lira vi si sente ognora, e più d'un bianco mio musico augello; e che sia vero, un de' suoi figli ascolta, a che dolce canzon la lingua ha sciolta. –
47
Volgesi a quella parte ond'esce il canto Adone, e vede un pescator su 'l lito: di semplice duaggio ha gonna e manto, ed ha di polpo un capperon sdruscito; ampio cappel che si ripiega alquanto gli adombra il crin, di sottil paglia ordito; tiene a piè la cistella, in man la canna con cui del'acque il popol muto inganna.
48
– Lilla (dicea) che sì fastosa e lieta ognor ne vai del mio tormento acerbo, deh! vienne al'ombra orché 'l maggior pianeta scalda il Leon feroce e 'l Can superbo; qua vienne, ove leggiadra e mansueta un'anguilla domestica ti serbo che di limo si nutre entro un forame di questo scoglio e non ha spine o squame.
49
Più bel non vide o più vezzoso pesce del Mincio mai la celebrata pesca. Spesso qualora il mar si gonfia e cresce salta dal fondo insu la riva fresca, va per l'erba serpendo e tant'oltr'esce che vien fin nel mio grembo a prender l'esca; di fin or al'orecchie ha duo pendenti e mi vomita in man perle lucenti.
50
Ha lunga coda e larga testa e grossa, bocca aperta e viscosa ed ampie terga; la schiena è di color tra bruna e rossa, d'auree macchie smaltata a verga a verga; si dibatte per l'acqua e per la fossa, né pur in pace un sol momento alberga; lubrica scorre, entra pertutto e guizza, e se la tocca alcun tosto si drizza.
51
Tua sarà se l'accetti e se ti piace deporre alquanto il dispietato orgoglio; del tuo vivaio entro l'umor vivace io di mia mano imprigionar la voglio. O di quest'animal vie più fugace, più dura al mio pregar di questo scoglio, vienne a temprar deh! vienne un doppio ardore e se 'l pesce non vuoi prenditi il core. –
52
Chiede a Venere Adon chi sia colui che sì ben col cantar l'aure lusinga. – è de' nostri (risponde) Amor di lui non avrà mai chi più fort'arda o stringa. Fileno ha nome, e dal'insidie altrui è qui giunto a menar vita solinga. Naque colà nela felice terra che la morta sirena in grembo serra.
53
Ma se ti cal più oltre intender forse di sue fortune, andianne ov'egli stassi. – Così sen giro ed ei, quando s'accorse ver lui drizzar la bella coppia i passi, di cotanta beltà stupido sorse per reverirla da que' rozzi sassi; ma con man gli accennò l'amica dea che di là non partisse ove sedea.
54
– Per romper (dice) o per turbar non vegno i tuoi dolci riposi o i bei lavori. Sai ben che quando del mio patrio regno prendesti in prima a celebrar gli onori, io diedi forza al tuo affannato ingegno, svegliandolo a cantar teneri amori, onde il nome immortale ancor pertutto serban di Lilla tua l'arena e 'l flutto,
55
Del foco tuo con mormorio sonoro farà 'l mar dov'io nacqui eterna fede; e come Apollo ti donò l'alloro così l'alga Nettuno or ti concede. Lodanti i muti pesci e tu di loro fai dilettose e volontarie prede; anzi con soavissime rapine prendi l'anime umane e le divine.
56
Fortunato cantor, la nobil arte quanto più gradirei del tuo concento, se i diletti e i dolor spiegassi in carte che per costui, non più sentiti, io sento; per costui, ch'è di me la miglior parte, amaro mio piacer, dolce tormento, mezzo del'alma mia, vita mia vera, anzi di questa vita anima intera.
57
Deh! tene prego, così 'l ciel secondo sempre e benigno a' tuoi desir si mostri, fa nel'età futura udire al mondo la bella istoria degl'incendi nostri. So che, se quest'ardor lieto e giocondo sarà materia a' tuoi vitali inchiostri, passerà l'onda oscura e chiara fia, non senza gloria tua, la fiamma mia.
58
Farò, se ciò farai, per te colei languir per cui languisci, amante amata; e quando il nodo onde legato sei verrà poscia a troncar Parca spietata, nel felice drappel de' cigni miei ti porrò, candid'ombra, alma beata, dove l'Eternità che sempre vive nel libro suo l'altrui memorie scrive.–
59
Risponde: – O degna dea dela beltate, imperadrice d'ogni nobil petto, canterò, scriverò, se voi mi date vena corrispondente al bel suggetto. Da voi viemmi lo stile e voi levate sovra sestesso il debile intelletto, poiché la cetra mia rauca e discorde s'ha de' lacci d'Amor fatte le corde.
60
Questo cor che si strugge a poco a poco languendo di dolcissima ferita, la mercé vostra, in ogni tempo e loco sarà fonte d'amor più che di vita, somministrando al suo celeste foco, nele pene beato, esca infinita; con tal piacer per la beltà ch'adoro sperando vivo e sospirando moro.
61
Nacque nel nascer mio, né fia ch'estinto manchi per volger d'anni ardor sì caro. Quelle catene ond'io son preso e cinto insieme con le fasce mi legaro. Que' lini istessi, in ch'io fui prima avinto, la piaga del mio petto anco fasciaro; lavato apena dal materno bagno, fui lavato dal pianto onde mi lagno.
62
Amor fu mio maestro, appresi amando a scriver poscia ed a cantar d'amore. Di duo furori acceso arsi penando, l'un mi scaldò la mente e l'altro il core, l'uno insegnommi a lagrimar cantando, l'altro a far le mie lagrime canore. Amor fè con la doglia amaro il pianto, Febo con l'armonia soave il canto.
63
Negar non voglio né negar poss'io ch'ai dolci studi, agli onorati affanni che rapiscono i nomi al cieco oblio e fanno al tempo ingordo eterni inganni, fatale elezzion l'animo mio non inclinasse assai fin da' prim'anni. In qualunque martir grave e molesto refugio unqua non ebbi altro che questo.
64
Ma da questa di vezzi arte nutrice ecco le spoglie alfin ch'altri riporta, ecco qual frutto vien di tal radice, un guarnel di zigrin, l'amo e la sporta. Trofei del nostro secolo infelice, in cui di gloria ogni favilla è morta. L'età del ferro è scorsa e sol di questa la vilissima rugine ne resta.
65
Tempo fu ch'ai cultor de' sacri rami favorevoli fur molto i pianeti. Or sol regnano in terra avare fami e copia v'ha di principi indiscreti, de' quai s'alcuno è pur che 'l canto n'ami, ama le poesie, non i poeti; né fia poca mercé quand'egli applaude premiando talor laude con laude.
66
Di me non parlo e, se pur canto o scrivo, d'Amor, non di Fortuna io mi lamento, che non intutto di ricchezze è privo chi trae la vita povero e contento. In tale stato volentier mi vivo, bastami sol che d'oro ho lo stromento. Lo stromento ch'io suono, a quell'alloro vedilo là sospeso, è di fin oro.
67
Ha di gigli dorati intorno i fregi ed ha gemmato il manico e le chiavi, dono ben degno del gran re de' regi, rege, amor de' soggetti, onor degli avi. Sì non indegni di cantar suoi pregi fussero i versi miei poco soavi, com'egli è tale infra gli eroi maggiori qual è il suo giglio infra i più bassi fiori.
68
Ma questo è il men, senon che 'l vulgo, a cui fosco vel d'ignoranza i lumi appanna, prendendo a scherno i bei sudori altrui, nel conoscere il meglio erra e s'inganna, e seben io tra que' miglior non fui, sovente chi più val biasma e condanna. Miser, di colpì tali ognor fu segno il mio battuto e travagliato ingegno!
69
Più d'una volta il genitor severo, in cui d'oro bollian desiri ardenti, stringendo il morso del paterno impero, "studio inutil (mi disse) a che pur tenti?" ed a forza piegò l'alto pensiero a vender fole ai garruli clienti, dettando a questi supplicanti e quelli nel rauco foro i queruli libelli.
70
Ma perché pote in noi natura assai, la lusinga del genio in me prevalse, e, la toga deposta, altrui lasciai parolette smaltir mendaci e false. Né dubbi testi interpretar curai, né discordi accordar chiose mi calse, quella stimando sol perfetta legge che de' sensi sfrenati il fren corregge.
71
Legge omai più non v'ha, laqual per dritto punisca il fallo o ricompensi il merto. Sembra quanto è fin qui deciso e scritto d'opinion confuse abisso incerto. Dale calunnie il litigante afflitto somiglia in vasto mar legno inesperto. Reggono il tutto con affetto ingordo passion cieca ed interesse sordo.
72
La rota eletta a terminar le liti qual nova d'Ission rota si volve e con giri perpetui ed infiniti trattien l'altrui ragion né la risolve. Pur que' lunghi intervalli alfin spediti, spesso il buon si condanna e 'l reo s'assolve. Del'oro, al cui guadagno è il mondo inteso, la bilancia d'Astrea trabocca al peso.
73
Tennemi pur assai la patria bella dentro i confin dele native soglie, dico Napoli mia, che la sorella dela sirena tua sepolta accoglie. Ma perché l'uom nel'età sua novella è pronto a variar pensieri e voglie, vago desio mi spinse e mi dispose a cercar nove terre e nove cose.
74
Mossemi ancor con falsi allettamenti la persuasion dela speranza, ed al sacro splendor degli ostri ardenti mi trasse pien di giovenil baldanza, sich'al'altrice dele chiare genti chiesi mercé di riposata stanza, credendo Amor vi soggiornasse come par che prometta il suo fallace nome.
75
Parte colà de' più liet'anni io spesi e de' colli famosi al'ombra vissi e sotto stelle nobili e cortesi, or l'altrui lodi or le mie pene scrissi; stelle i cui raggi d'alta gloria accesi vinceano i maggior lumi in cielo affissi, ma l'influenze lor pertutto sparse ad ogni altro benigne, a me fur scarse.
76
Vidi la corte e nela corte io vidi promesse lunghe e guiderdoni avari, favori ingiusti e patrocini infidi, speranze dolci e pentimenti amari, sorrisi traditor, vezzi omicidi ed acquisti dubbiosi e danni chiari e voti vani ed idoli bugiardi, onde il male è securo e 'l ben vien tardi.
77
Ma come può vero diletto? o come vera quiete altrui donar la corte? Le diè la cortesia del proprio nome solo il principio, il fine ha dala morte. Io volsi dunque, pria che cangiar chiome, terra e cielo cangiar, per cangiar sorte. Ma lung'ora però del loco, in cui ricovrar mi devessi, in dubbio fui.
78
Sperai di tanti danni alcun ristoro trovar là dove ogni valor soggiorna, nela città che 'l nome ebbe dal toro sicome il fiume suo n'ebbe le corna. Venni ala Dora che di fertil oro, come il titol risona, i campi adorna. Ma 'n prigion dolorosa ove mi scorse, lasso, che 'n vece d'or ferro mi porse.
79
Di quel signor, che generoso e giusto regna colà del'Alpi ale radici, non mi dogl'io; così pur sempre augusto goda, al valor devuti, anni felici. Sol del destino accuso il torto ingiusto, e 'l finto amor de' disleali amici, per la cui sceleragine si vede là dove nasce il Po morir la fede.
80
Venne sospinta da livor maligno ancor quivi l'Invidia a saettarmi, che sua ragion con scelerato ordigno difender volse e disputar con l'armi e rispondendo col fucil sanguigno e col tuon dele palle al suon de' carmi, mosse l'ingiurie a vendicar non gravi dele penne innocenti i ferri cavi.
81
M'assalse insidiosa e, com'avante lingua vibrò di fiele e di veleno, così poi vomitò foco sonante per la bocca d'un fulmine terreno. Con la canna forata e folgorante tentò ferirmi e lacerarmi il seno, come la fama mi trafisse e come mi lacerò con le parole il nome.
82
Non meritava un lieve scherzo e vano d'arguti risi e di faceti versi, ch'altri devesse armar l'iniqua mano di sì perfidi artigli e sì perversi e scoccar contro me colpo villano, ch'inerme il fianco ala percossa offersi. Che non fa, che non osa ira e furore d'animo desperato e traditore?
83
Pensò forse il fellon, quando m'offese, per atto tal di migliorar ventura e con la voce del ferrato arnese d'acquistar grido appo l'età futura. Sperò col lampo che la polve accese di rischiarar la sua memoria oscura e, fatto dala rabbia audace e forte, si volse immortalar con la mia morte.
84
Girò l'infausta chiave e le sue strane volgendo intorno e spaventose rote abbassar fe' la testa al fiero cane, che 'n bocca tien la formidabil cote, siché toccò le machine inumane ond'avampa il balen ch'altrui percote, e con fragore orribile e rimbombo aventò contro me globi di piombo.
85
Ma fusse pur del ciel grazia seconda ch'innocenza e bontà sovente aita, o pur virtù di quella sacra fronda che da folgore mai non è ferita, fra gli ozi di quest'antro e di quest'onda fui riservato a più tranquilla vita. Forse com'amator di sua bell'arte, campommi Apollo da Vulcano e Marte.
86
Quindi l'Alpi varcando, il bel paese giunsi a veder dela contrada franca, dove i gran gigli d'oro ombra cortese prestaro un tempo ala mia vita stanca. La virtù vidi e la beltà francese; v'abonda onor né cortesia vi manca. Terren sì d'ogni ben ricco e fecondo ch'i' non so dir se sia provincia o mondo.
87
Ma però che 'l furor suole in gran parte di que' petti guerrieri esser tiranno, e le penne pacifiche e le carte con aste e spade conversar non sanno, e tra gli scoppi e i timpani di Marte i concenti d'Amor voce noti hanno, questo scoglio romito e questo lido feci de' miei pensier refugio e nido.
88
Qui mi vivo a mestesso e 'n quest'arena che cosa sia felicità comprendo, e qui purgando la mia rozza vena, da' tuoi candidi cigni il canto apprendo, con cui sfogar del cor la dolce pena la pescatrice mia m'ode ridendo. Vena povera certo ed infeconda, ma schietta e natural com'è quest'onda.
89
Così vinto il rigor del fier destino, con cui vera virtù sempre combatte, di Pausilipo e Nisida e Pioppino risarcisco le perdite ch'ho fatte. Il puro stagno e 'l bel fonte vicino, le lor rive fiorite e l'onde intatte son mia corte e mia reggia; altro non bramo che l'erba e l'acqua e la cannuccia e l'amo.
90
Uom ch'anelante a vani acquisti aspira e 'n cose frali ogni suo studio ha messo, fa qual turbo o paleo che mentre gira, la sepoltura fabrica a sestesso e, dopo molte rote, alfin si mira aver al moto il precipizio appresso. Che val tanto sudar, gente inquieta, s'angusta fossa ale fatiche è meta?
91
Il meglio è dunque in questa vita breve procacciar contro morte alcun riparo, e poiché 'l corpo incenerir pur deve, rendere almeno il nome eterno e chiaro. Chi da fortuna rea torto riceve specchisi in me ch'a disprezzarla imparo. Sol beato è chi gode in ore liete tra modesti piacer bella quiete. –
92
– Virtù non men ch'amor di sé s'appaga (dice la dea, ch'intenta il parlar ode) sicome amor sol con amor si paga, così virtù sol di virtù si gode. Altro premio, altro prezzo ed altra paga non richiede né vuol ch'onore e lode. Ella è merce e mercé sola a sestessa. – Così dicendo al bel fonte s'appressa.
93
Nel'isoletta un picciol pian ritondo da siepe è cinto di fin oro eletto, che col metallo prezioso e biondo difende il praticel che vi fa letto. E di germi odoriferi fecondo, d'aromatiche piante havvi un boschetto che fan con l'ombre lor frondose e spesse il loco insuperbir di ricca messe.
94
Un Parnasetto d'immortal verdura nel centro del pratel fa piazza ombrosa, in mezzo al cui quadrangolo a misura la pianta dela fabrica si posa. Fermansi a contemplar l'alta struttura la vaga e 'l vago insu la sponda erbosa, e van mirando i peregrini intagli cui nulla è sotto il sole opra ch'agguagli.
95
Di terreno scultor scarpelli industri formar non saprien mai sì bella fonte; e ben fece molt'anni e molti lustri ai tre giganti etnei sudar la fronte. Nove di marmo fin figure illustri cerchiano un sasso e 'l sasso assembra un monte. E quel monte ha due cime e 'nsu le cime alato corridor la zampa imprime.
96
Deh ! perdoniti il ciel sì grave fallo per cui men caro il buon licor si tiene, zoppo fabricator del bel cavallo che ne venne ad aprir novo Ippocrene. Bastar ben ti devea che 'l suo cristallo scaturisse Elicona in larghe vene, senza far di quell'acque elette e rare l'uso a pochi concesso, omai vulgare.
97
Quanti da indi in qua del nome indegni poeti il chiaro studio han fatto vile? Quanti con labra immonde audaci ingegni vanno a contaminar l'onda gentile? Non si turbi il bel coro e non si sdegni se venale e plebeo divien lo stile, poiché del mondo ogni contrada quasi di Caballini abonda e di Parnasi.
98
è sì ben finto il zappador destriero, ch'alo spuntar del giorno in oriente i corsieri del sol credendol vero ringhiando gli annitrirono sovente. Piove dal sasso in un diluvio intero la piena in pila concava e lucente; e la pila ch'accoglie in sé la pioggia dele Muse su gli omeri s'appoggia.
99
Ha lo stromento suo ciascuna Musa, ed a ciascun stromento in ogni parte l'onda canora in cavo piombo chiusa per molte canne l'anima comparte. Strangolata gorgoglia, indi diffusa volge machine e rote ordite ad arte e, con tenor di melodia mentita, dela man, dela bocca il suono imita.
100
Sta sotto l'ombra dela cava pietra, che sottogiace al volator Pegaso, il bel signor dela cornuta cetra, il gran rettor di Pindo e di Parnaso. In testa il lauro, al fianco ha la faretra e versa l'acqua in più capace vaso. L'acqua, che d'alto vien lucida e tersa, per l'armonico plettro ingiù riversa.
101
Intorno al labro spazioso e grande dela conca che copre il re di Delo, s'intesse il fonte da tutte le bande di traslucido argento un sottil velo, e 'n tal guisa il suo giro allarga e spande che vien quasi a formar coppa di gelo, in guisa tal ch'a chi per ber s'appressa tazza insieme e bevanda è l'acqua istessa.
102
Par che quel chiaro velo innargentato, che di liquidi stami ordì Natura, abbia l'Arte tessuto e lavorato per guardar dala polve onda sì pura; o sia per asciugar forse filato l'acqua, che 'n sostener quella scultura le dee del tempo e del'oblio nemiche stillan, quasi sudor dele fatiche.
103
Volgon le Muse l'una al'altra opposte le spalle al fonte ed alo stagno il viso, e 'n diverse attitudini composte fanno corona al'armentier d'Anfriso. In piè levate e 'n vago ordin disposte grondan perle dal crin, brine dal viso, e scalze e mezzo ignude accolte in cerchio dela gran conca reggono il coverchio.
104
Dala conca più alta ala più bassa, che 'n baccino maggior l'acque ricetta, dele bell'onde il precipizio passa, laqual pur le riceve e le rigetta. Nel cerchio inferior cader le lassa, dove l'acqua divisa a bere alletta. In quattro fonti piccioli è divisa, ed ogni fonte ha la sua statua incisa.
105
Quattro le statue son; la Gloria in una, la Fama in altra parte incise stanno; la Virtù quindi e quinci la Fortuna vaghi al vago lavor termini fanno; e 'n cima a tre scaglion posta ciascuna, ch'agiato al'altrui sete adito danno, l'acqua in vaso minor versa e ripone o per urna o per tromba o per cannone.
106
Chi può dir poi sicome scherza e 'n quante guise si varia la volubil vena? Or per torto sentier serpendo errante tesse di bei meandri ampia catena, or con dirotta aspergine saltante bagna lambendo il ciel l'aura serena; e poiché quanto può s'inalza e poggia, sparge l'accolto nembo in lieta pioggia.
107
Piovuta si ringorga e si nasconde l'acqua, e 'n cupo canal suppressa alquanto, singhiozza sì che 'l mormorio del'onde sembra di rossignuol gemito e pianto. Poi per secrete vie sboccando altronde, esce con forza tal, con furor tanto, che si disfiocca in argentata spuma e somiglia a veder candida piuma.
108
Meraviglia talor, mentre s'estolle, arco stampa nel ciel simili ad iri. Trasformasi l'umor liquido e molle: volto in raggi, in comete, in stelle il miri. Miri qui sgorgar globi, eruttar bolle, là girelle rotar con cento giri, spuntar rampolli e pullular zampilli e guizzi e spruzzi e pispinelli e spilli.
109
Nelo spazio, che l'orlo a cerchiar viene tra cornice e cornice al maggior vase, havvi un fregio di scudi, ilqual contiene l'insegne in sé dele più chiare case e di cigni scherzanti e di sirene varie trecce ogni scudo ha nella base, che distendendo van su i bianchi marmi l'ali,e le code e fan cartiglio al'armi.
110
Posto è in tal guisa intorno ala bell'opra l'ordin de l'armi più famose al mondo, che dele Muse, che stan lor disopra, reggon l'incarco, compartite in tondo. Come l'una sostenga e l'altra copra, son tra lor con bel cambio appoggio e pondo. Ogni statua uno scudo ha sotto il piede e in ogni scudo un simbolo si vede.
111
Per distinguer l'imprese il fabro egregio del'ornamento nobile e sublime, mischi di più color ma d'egual pregio scelse e polì con ingegnose lime. Talché d'ogni divisa il vario fregio le differenze in color vario esprime e con pietre diverse inun commesse e scultura e pittura accoppia in esse.
112
– Vedi marmi colà vivi e spiranti (disse al suo bell'Adon Venere allora) son famiglie d'eroi, de' cui sembianti Virtù si pregia e Poesia s'onora. Hanno molto a girar gli anni rotanti pria ch'abbian vita e non son nati ancora. Mosso Vulcan da spirito presago, innanzi tempo n'adombrò l'imago.
113
Tu dei saver che sotto 'l ciel, secondo il giro di quel fuso adamantino che la Necessità rivolge a tondo, mossa però dal gran Motor divino, la serie dele cose al basso mondo muta immutabil sempre alto destino, e fra queste vicende anco le lingue l'una nasce di lor, l'altra s'estingue.
114
La dotta cetra argiva udrassi pria su 'l Cefiso spiegar melati accenti, e trarre ala dolcissima armonia del mare oriental sospesi i venti. Privilegio fatal di questa fia di sacre cose innebriar le menti, sollevando ai secreti alti misteri de' numi eterni i nobili pensieri.
115
Moverà non men dolce il Tebro poi su le corde latine il plettro d'oro, onde da' cigni miei ne' poggi suoi fia ripiantato il trionfale alloro. Grave e ben atto a celebrar eroi sarà del Lazio il pettine canoro, ed a sonar con bellicosi carmi di guerrieri e di luci imprese ed armi.
116
Succederà la tosca lira a queste, di queste assai più dilicata e pura, che di tutti gli onor s'adorna e veste onde l'altre arricchiro Arte e Natura. Intenerito dal cantar celeste l'Arno al corso porrà freno e misura e, da' versi allettato e trattenuto, porterà tardo al mare il suo tributo.
117
Questa, con vaghi metri e dolci note e con numeri molli accolti in rima, fia che per propria e singolar sua dote meglio ch'altra non fa gli amori esprima. Or ale tosche Muse, ancorché ignote, fu il nobil fonte dedicato in prima; né certo edificar si devean cose nel paese d'Amor fuorch'amorose.
118
Ma perch'è ver che dele Muse afflitte sono Invidia e Fortuna emule antiche, uopo d'alte difese e d'armi invitte avran contro sì perfide nemiche. Le case dunque che qui son descritte sosterran l'onorate altrui fatiche, e questi fien tra' principi più degni che daran fida aita ai sacri ingegni.
119
Beato mondo allor, mondo beato, cui tanta amico ciel gloria destina, beatissima Italia a cui fia dato per costor risarcir l'alta ruina e tornar trionfante al primo stato dele provincie universal reina. – Sì dice e dela schiera ivi scolpita le generose imagini gli addita.
120
– Ferma (dicea) la vista in quella parte dove il bianco corsier su 'l rosso splende. Questo, seben feroce il fiero Marte ama, e foco guerrier nel petto accende, talor d'Apollo a vie più placid'arte inerme ancora e mansueto intende, ond'aprendo la vena a novi fonti fia che novo Pegaso il ciel sormonti.
121
Sappi che fra que' mostri onde s'adorna del sommo ciel la lucida testura, oltre il Pegaso altro destrier soggiorna adombrato però di luce oscura. Pur di segno minor, maggior ritorna sol per esser di questo ombra e figura; e le sue fosche e tenebrose stelle tempo verrà che saran chiare e belle.
122
Né speri alcun giamai con sprone o verga domarlo a forza o maneggiarlo in corso, con dura sella premergli le terga o con tenace fren stringergli il morso. Spirito in lui sì generoso alberga ch'intolerante ha di vil soma il dorso. Chi crede averlo o soggiogato o vinto con fatal precipizio a terra è spinto.
123
Pur deposto talor l'impeto audace ch'avrà di sangue ostil versati rivi, chiuderà Giano ed aprirà la Pace ed ai cipressi innesterà gli olivi. Germoglieran dal cenere che giace de' cadaveri morti i lauri vivi e diverran sol per lodarlo allora l'Alpi Parnaso e Caballin la Dora.
124
Dal chiaro armento di Sassonia uscito carco n'andrà di scettri e di diademi; né pur la bella Italia al fier nitrito, ma fia che l'Asia sbigottisca e tremi. Poi di spoglie e trofei tutto arricchito verrà dela mia Cipro ai lidi estremi. Ma che? fiero destin, perfido trace... – E qui scioglie un sospiro e pensa e tace.
125
– Tu vedi (segue poi) l'aquila bianca che divide del'aria i campi immensi e le nubi trascende e lieve e franca su i propri vanni in maestà sostiensi. Quella in opre d'onor giamai non stanca l'insegna fia de' gloriosi Estensi, il cui volo magnanimo e reale per vie dritte e sublimi aprirà l'ale.
126
Non tanto le verrà la bella insegna per la divina origine d'Ettorre, quanto perché con lei fia che convegna l'inclita augella che viltate aborre. Quella però ch'ogni bassezza sdegna assai presso ale sfere il ciel trascorre; questa dal vulgo allontanando i passi non fia ch'a vil pensier l'animo abbassi.
127
Quella, la spoglia del'antiche piume dentro puro ruscel ringiovenita, di rinovar sestessa ha per costume a molti e molti secoli di vita; questa purgata entro 'l Castalio fiume, quasi fenice del bel rogo uscita, verrà lire del tempo a curar poco, fatta immortal dal'acque e non dal foco.
128
E come quella ognor con guardo fiso avezzar ala luce i figli suole, in quel modo ch'a' rai del tuo bel viso anch'io sempre mi volgo, o mio bel sole, così da questa con accorto aviso imparerà la generosa prole, di Febo amica ed a' suoi raggi intesa, di celeste splendor mostrarsi accesa.
129
Ben s'agguaglian tra lor, senon che quella i cigni d'oltraggiar prende diletto, ma da questa ch'io dico aquila bella avran gli augei canori esca e ricetto. E s'altr'aquila in ciel conversa in stella d'una cetera sola adorna il petto, questa n'avrà fra l'altre in terra due possenti ad eternar le glorie sue.
130
Vedi quell'altre poi quattro seguenti, emule dela prima, aquile nere, per accennar ch'a tutti quattro i venti hanno il volo a spiegar del'ali altere. A semplici colombe ed innocenti non saran queste ingiuriose e fiere, ma spirti avran di guerreggiar sol vaghi con nibbi ed avoltoi, vipere e draghi.
131
Rapì cangiato in queste forme istesse il mio gran genitor vago garzone, benché, cred'io, se te veduto avesse, preposto avrebbe a Ganimede Adone. Ma se costume è naturale in esse satollar di rapine il curvo unghione, queste, pronte a donar, non a rapire, sol di prede di cori avran desire.
132
Predice a queste l'indovina Manto il favor tutto del'aonie dive; per queste il Mincio con eterno vanto popolate di cigni avrà le rive, mormorando concorde al nobil canto de' suoi Gonzaghi le memorie vive, che vivran sempre in più d'un stil facondo e non morran finché non more il mondo.
133
Sotto l'ali di queste il maggior cigno che darà vita al mio Troian pietoso, da mollir, da spezzar duro macigno formerà canto in ogni età famoso. E già da queste ancor destro e benigno giunto in Italia a procacciar riposo, ebbe lo stesso Enea presagio e segno di felice vittoria e lieto regno.
134
Mira quel tronco, a cui di fronde aurate fanno pomposo il crin germi felici. è la quercia d'Urbin, che 'n altra etate tali e tante aprirà rami e radici, che, poich'avrà di spoglie assai pregiate arricchiti di Roma i colli aprici, in riva porterà del bel Metauro con suoi frutti lucenti un secol d'auro.
135
Questa più ch'altra pianta irrigar l'onde denno del fecondissimo Elicona. Di questa Apollo ale sue chiome bionde di lauro in vece intesserà corona. Al mormorio dele soavi fronde il suono invidiar potrà Dodona. Avranno al'ombra sua tranquillo e fido i miei candidi augei ricovro e nido.
136
La bella scorza, che seccar non pote ardor d'estate né rigor di verno, porterà al ciel con mille incise note de' suoi chiari cultori il nome eterno. Il ceppo altier, che fulmine non scote, prendendo d'aquilon l'ingiurie a scherno, sempre maggiore acquisterà fermezza, come fa nel mio cor la tua bellezza.
137
Or colà volgi gli occhi ai sei giacinti, nel cui lieto ceruleo apunto miri quell'azzurro sereno onde son tinti dele tue luci i lucidi zaffiri. Sì chiaro è quel color che gli ha dipinti, che s'egli avien che 'n essi il guardo giri, non sa il pensier, che dubbio alterna ed erra, dir se sien gigli in cielo o stelle in terra.
138
Gigli celesti e fortunati, o quale seme d'alte speranze in voi s'accoglie. Qual d'odori di gloria aura immortale trarrà la Fama dale vostre foglie. E quant'api da voi porteran l'ale ricche di ricche e preziose spoglie, onde illustre lavor fia poi costrutto ch'empierà di dolcezza il mondo tutto.
139
Voi piantati e nutriti in que' begli orti dove non son da bruma i fiori offesi, darete per sottrarle agli altrui torti ale sante sorelle ombre cortesi. Per voi non men magnanimi che forti cresceran tanto in pregio i gran Farnesi ch'a qual fiume più celebre e più chiaro la palma usurperan la Parma e 'l Taro.
140
Quella colonna, il cui candor lucente del tuo seno assomiglia il bel candore, sostegno fia dela virtù cadente, stabil come la fede è nel mio core. E se tra le colonne in occidente la gran lampa del sol tramonta e more, da questa, invitta e salda ad ogni crollo, rinascerà con la sua luce Apollo.
141
Quante volte quand'io, folle ch'io m'era, di Gradivo l'amor gradir solia, "questa, diceami, la mia reggia altera, questa de' miei trionfi il trono fia. Cesari e Mecenati in lunga schiera per lei rinoverà la città mia, né figli mai tra' suoi famosi e chiari la gran lupa latina avrà più cari".
142
L'altro scudo vicin, che per traverso di tre strisce vermiglie il bianco inostra, e di rose purpuree il campo terso, simile al volto tuo, fregiato mostra, di stirpe fia, splendor del'universo, pompa del Tebro e meraviglia nostra, a cui, come a miglior fra le migliori, ben converrassi il fior degli altri fiori.
143
Fior che del sangue mio superbo vai, fior, pupilla d'Amor, tesor di maggio, tu de' prati di Pindo onor sarai, né dei d'ombra o di sol temere oltraggio. Quella ch'onora il ciel romano e mai non tuffa in torbid'onda il chiaro raggio, de' fregi tuoi, non più di stelle inteste porterà le ghirlande, orsa celeste.
144
Ecco del gran tonante, ecco poi nero un altro egregio imperiale augello. Del Doria, a cui di Dori il salso impero destinato è dal ciel, lo scudo è quello. Fido ministro del gran Giove ibero arderà, ferirà lo stuol rubello, sicome tu con tuoi pungenti sguardi i ritrosi d'Amor ferisci ed ardi.
145
Non ha questo a vibrar del cielo in terra il tripartito folgore vermiglio, ma del'altro infernal, che 'n nova guerra fia temprato di bronzo, armar l'artiglio. Quanto il lembo del mar circonda e serra tremerà tutto e correrà periglio. Solo il verde arboscel, nonché ferito, fia difeso da questo e custodito.
146
Dela progenie, ch'io ti conto e mostro, aquila peregrina alzerà 'l volo che 'mporporata del più lucid'ostro le brune penne, andrà da polo a polo. Progenie degna di famoso inchiostro, del mondo onor, non di Liguria solo, degna più ch'altra assai del favor mio, che darà legge al mar dove nacqu'io.
147
Ma deh! pon mente ale purpuree palle, di que' Medici illustri arme sovrana, per cui, se 'l chiaro antiveder non falle, le piaghe antiche ha da saldar Toscana. Da fortuna battute, al ciel faralle balzar virtù sovr'ogni gloria umana. Con esse al giogo del'instabil sorte vinceranno i lor duci invidia e morte.
148
Palle d'alto valor fulminatrici onde tempesta uscir deve sì fatta, che de' rubelli esserciti nemici fia ch'ogni forza, ogni riparo abbatta, per cui non sol de' barbari infelici la superbia cadrà rotta e disfatta, ma delo scoppio il gran rimbombo solo tutto de' vizi atterrirà lo stuolo.
149
Sono i bei globi simili ai celesti e simulacri dele sfere eterne e ben pari e conforme in quelle e 'n questi, tranne sol uno, il numero si scerne, a dinotar ch'agli onorati gesti tutte quante n'ha il ciel rote superne volgeranno propizie amico lume, solo escluso Saturno, infausto nume.
150
Fiorir l'arti più belle e rischiararsi allor d'Arno vedrem le torbid'acque, e risorger la luce e rinfrancarsi del'italico onor ch'estinta giacque, e molti ingegni a nobil volo alzarsi su l'ali di colui che da me nacque, e con chiari concenti addolcir l'aura dietro ai cantor di Beatrice e Laura. –
151
E qui rapita ai secoli lontani la bella Citerea la mente aperse, onde l'istoria de' successi umani quasi in teatro al suo pensier s'offerse e ne' più cupi e più profondi arcani del'età da venir tutta s'immerse. – O qual (dicea) vegg'io, correndo i lustri, nascer di ceppo tal germogli illustri.
152
Io veggio quinci dopo molto e molto volger di ciel, girar di mesi e d'anni, del secol tristo in tenebre sepolto spuntare un sole a ristorare i danni, sol ch'avrà sol di donna il sesso e 'l volto, ma 'l cor sempre viril tra i regi affanni. Ogni nobil virtù sol da costei verrà che nasca o sorgerà per lei.
153
Non fia mai che di questa un più bel manto alma copra più saggia o più pudica. Ma dele lodi sue basti sol tanto, uopo non è ch'io più di ciò ti dica, che qual proprio ella siasi e come e quanto vinca di pregio ogni memoria antica, in parte ov'io condur ti voglio in breve, esserne l'occhio tuo giudice deve. –
154
Così gli dice ed ala bella il bello le parole interrompe in tal maniera: – Deh! dimmi, o fida mia, che scudo è quello loqual posto non è con gli altri in schiera ma nela base sta che fa scabello al gran motor dela più chiara sfera? In quell'azzur ch'al ciel par si somigli che voglion dir que' tre dorati gigli? –
155
– Dela casa di Francia è la divisa e tal loco a ragion Vulcan le diede, però ch'apunto a quella istessa guisa fia di Febo (risponde) albergo e sede. E sicome dal numero divisa starsi sola in disparte ivi si vede, così d'ogni valor ricca e possente sen'andrà singolar dal'altra gente.
156
Ragion è ben che del'Italia aggiunga questa sola straniera onore ai fregi, ch'altra giamai, cui virtù scaldi e punga, non fra ch'i cigni suoi cotanto appregi. Troppo fora a contar la serie lunga che n'uscirà de' gloriosi regi, e senz'annoverar sì folto stuolo basta per tutti ad illustrarla un solo.
157
Come tutte nel cor raccolte sono del'altre membra le virtuti insieme, così tutta il signor di cui ragiono raccorrà in sé de' suoi l'unica speme. Né men materia a qual più chiaro suono darà da celebrar sue glorie estreme, che premio a' bei sudor, che i sacri monti stillar vedran dale più dotte fonti.
158
Con man tenera ancor, legata e stretta terrà Fortuna mobile e vagante, siché resa a Virtù serva e soggetta faralla a suo favor tornar costante. E 'l veglio alato, che con tanta fretta fugge e fuggendo rompe anco il diamante, perché gli onori suoi non sene porti, con groppi stringerà tenaci e forti.
159
Oltre il buon zelo e la giustizia, a cui dritto è che Gallia ogni speranza appoggi, fia che tra' gigli d'or sol per costui dele Muse toscane il coro alloggi. Il Tago e 'l Gange irrigheran per lui in vece del Castalio i sacri poggi, onde per fecondar l'arido alloro l'acque, ch'or son d'argento, allor fien d'oro.
160
Nasci nasci o Luigi, amica stella quant'onor, quanto pregio a te promette. Vibri pur quanto sa cruda e rubella l'altrui perfidia in te lance e saette. Taccio l'altre tue glorie, e passo a quella, che le Muse da te non fian neglette. De' dolci studi e dela sacra schiera te rettore e tutore il mondo spera.
161
Cresci cresci o Luigi, inclita prole d'alme eccelse e reali e giuste e pie. Il tuo gran nome ove l'altrui non suole si spargerà per disusate vie; e dove sorge e dove cade il sole, e dove nasce e dove more il die la Fama il porterà leggiera e scarca e romperà le forbici ala Parca.
162
Tra molte e molte cetre, onde rimbomba de' tuoi vanti immortali il chiaro grido, dal Sebeto traslata odo una tromba dela tua Senna al fortunato lido. Questa trar ti potrà d'oscura tomba e darti infra le stelle eterno nido, ch'empiendo il ciel d'infaticabil suono sarà lira al concento e squilla al tuono.
163
E seben chi la suona e chi la tocca sosterrà di fortuna oltraggi e scherni, quando l'invidia altrui maligna e sciocca fra che 'n lui sparga i suoi veleni interni, mentr'avrà spirto in petto e fiato in bocca non però cesserà che non t'eterni, di te narrando meraviglie tante che ne suoni Parnaso e tremi Atlante. –
164
Allor Venere tace e dove folta stendon la verde chioma allori e faggi mille intorno al bel fonte e mille ascolta poeti alati e musici selvaggi, che con rime amorose a volta a volta e con infaticabili passaggi intrecciando sen van per la verdura di lasciva armonia dolce mistura.
165
Il vago stuol de' litiganti augelli per riportar de' primi onori il fasto innanzi a Citerea tra gli arboscelli cominciò gareggiando alto contrasto e concenti formò sì novi e belli ch'a pareggiargli io col mio stil non basto. Giurò Venere istessa in ciel avezza che le sfere non han tanta dolcezza.
166
O perch'assai piacesse a questa diva il canto che 'nsu 'l fine è più sollenne, o perché monda e di sozzure schiva amasse il bel candor di quelle penne, gregge di bianchi cigni ella nutriva nel'isoletta ove quel giorno venne, ch'ambiziosi allor dele sue lodi a cantar si sfidaro in mille modi.
167
Infiniti da strani ermi confini guerrier facondi e musici campioni e domestici aprova e peregrini vi concorsero insieme a far tenzoni. Tra' frondosi s'udir mirti vicini vibrar accenti e saettar canzoni, e dela pugna lor che fu concento, fu steccato la selva e tromba il vento.
168
Vari di voce e nelo stil diversi, tutti però delpar leggiadri e vaghi e tutti ala gentil coppia conversi, cantan com'Amor arda e come impiaghi. Cantan molti il futuro e forman versi del'opre altrui fatidici e presaghi, che quel ch'ivi si bee furor divino sveglia ne' petti lor spirto indovino.
169
– Stiamo ad udir (la dea di Pafo disse) degli alati cantor le dolci gare. Tener l'orecchie attentamente affisse si denno a quell'insolito cantare, perché sì belle ed onorate risse saranno in altra età famose e chiare. Gli augelli autor di sì soavi canti son di sacri poeti ombre volanti.
170
L'anime di costor, poiché disciolte son da' legami del corporeo velo, passano in cigni, e che 'n tal forma involte vivan poi sempre ha stabilito il cielo. E tra questi mirteti in pace accolte le fa beate il gran rettor di Delo, là dove ognor, sicome fer già quando tenner corpo mortal, vivon cantando.
171
Molte ven'ha ch'ancor rinchiuse e strette non son tra' sensi,e queste pur son tali a cantar qui per mia delizia elette finché 'n carcer terreno implichin l'ali. – Adone il canto ad ascoltar si stette di que' felici spiriti immortali, che già venian con voci in vece d'armi nel verde agone al paragon de' carmi.
172
Fu benigno favor, grazia cortese di lei ch'è de' suoi lumi unico sole, e miracol del ciel ch'Adone intese di quel linguaggio i sensi e le parole e ben distinto ogni concetto apprese espresso fuor dele canore gole. Nela scola d'Amor che non s'apprende, se 'l parlar degli augelli anco s'intende?
173
Era tra questi augei l'ombra d'Orfeo, che fè dei versi suoi seguace il bosco, Pindaro v'era ed eravi Museo, e Teocrito v'era e v'era Mosco. Eravi Anacreonte, eravi Alceo e Safo, alto splendor del secol fosco, che non portò di quanti io qui ne scrivo luce minore al'idioma argivo.
174
V'era lo stuol di que' Latini primi che 'n amoroso stil meglio cantaro: Gallo, Orazio, Catullo, alme sublimi, Tibullo, Accio, Properzio e Tucca e Varo ed Ovidio di cui non è chi stimi ch'altro cigno d'Amor volasse al paro. V'era la schiera poi de' più moderni del'italica lingua onori eterni.
175
E seben gli altri che le bianche piume per le piagge spiegar di Roma e d'Argo fur lor maestri, ond'ebber spirto e lume, mercé ch'a quelli il ciel ne fu più largo, questi, però che di Parnaso il nume gli ha destinati a posseder quel margo, cantano soli ala gran dea presenti, tacciono gli altri ad ascoltare intenti.
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Aristofane, tu ch'ornasti tanto là ne' greci teatri il socco d'oro, tu, che d'interpretar ti desti vanto il ragionar del popolo canoro, e 'n scena il novo inesplicabil canto spiegar sapesti e le favelle loro, tanta or dal biondo dio mercé m'impetra, che distinguerlo insegni ala mia cetra.
177
Un vene fu, che sovra un verde lauro fece col suo cantar l'aura immortale, ed illustrò dal Battriano al Mauro quel foco che d'Apollo il fè rivale, dicendo pur ch'ale quadrella d'auro cede la forza del fulmineo strale, poiché nel'arbor sacra al ciel diletta, dove Giove non pote, Amor saetta.
178
Altro, il cui volo pareggiar non lice, ben su l'ali liggier, tre mondi canta, e la beltà beata e Beatrice che da terra il rapisce essalta e vanta. Un suo vicin con stil non men felice seco s'accorda in una istessa pianta, perché Certaldo ammiri e 'l mondo scerna la sua fiamma e la fama a un punto eterna.
179
Havvi poi d'Adria ancor canoro mostro, purpureo cigno e nobile e gentile, che la lingua ha di latte e 'l manto d'ostro, rossa la piuma e candido lo stile. Apre non lunge augel d'Etruria il rostro, salvo il capo ch'è verde, a lui simile, appellando il suo amor su 'l verde stelo scoglio in mar, selce in terra, angelo in cielo.
180
Accompagna costor soavemente il sonator dela sincera avena, che le Muse calar fece sovente di Mergellina ala nativa arena. Le cui dolci seguir note si sente anco un altro figliuol dela sirena che con qual arte i rami a spogliar vegna lo sfrondator dela vendemmia insegna.
181
Donne insieme ed eroi, guerre ed amori quel che nacque insu 'l Po' cantar s'udia, immortalando di Ruggier gli onori con pura vena e semplice armonia; e di dolcezza innebriava i cori, i circostanti tronchi inteneria. Arder facea d'amor le pietre e l'onde, sospirar l'aure e lagrimar le fronde.
182
Testor di rime eccelse e numerose di Partenope un figlio a lui successe, e prese a celebrar l'armi pietose, liberatrici dele mura oppresse e i suoi pensier sì vivamente espose, i versi suoi sì nobilmente espresse, che fe' del nome di Goffredo e Guelfo sonar Cipro non sol, ma Delo e Delfo.
183
Né tu con voce men gradita e cara favoleggiando il canto tuo sciogliesti, dico a te, che di gloria oggi sì chiara il tuo fido pastore adorni e vesti. Seguir voleano, e dela nobil gara dubbia ancor la vittoria era tra questi, quand'ecco fuor d'un cavernoso tufo sbucar difforme e rabbuffato un gufo.
184
– O quanto o quanto meglio, infame augello, ritorneresti al infelici grotte, nunzio d'infausti auguri, al sol rubello, e del'ombre compagno e dela notte. Non disturbar l'angelico drappello, vanne tra cave piante e mura rotte a celar quella tua fronte cornuta, quegli occhi biechi e quella barba irsuta.
185
Da qual profonda e tenebrosa buca, nottula temeraria, al giorno uscisti? Torna là dove sol mai non riluca tra foschi orrori e lagrimosi e tristi. Tu trionfi cantar d'invitto duca? tu di mondi novelli eccelsi acquisti? tu, del'Invidia rea figlio maligno, di pipistrel vuoi trasformarti in cigno? –
186
Così parla al'augel malvagio e brutto la dea, sdegnando un stil sì rauco udire, e i chiari onor del domator del flutto, dov'ella ebbe il natal, tanto avilire. Spiace de' cigni al concistoro tutto la villana sciocchezza e 'l folle ardire, che l'alte lodi ad abbassar si metta del colombo a lei sacro una civetta.
187
Mentre a garrir s'appresta, acconcio in atto che dela nobil turba il gioco accresce, e scote l'ali e in un medesmo tratto gli urli tra' canti ambizioso ei mesce, loquacissima pica il contrafatto uccellato uccellone a sfidar esce, e con strilli importuni in rozzi carmi dassi anch'ella a gracchiar d'amori e d'armi.
188
Ma che? non prima a balbettar si mise quel suo, canto non già, strepito e strido, ch'alto levossi in mille e mille guise infra i volanti ascoltatori un grido, ed empiè sì, che Citerea ne rise, quasi di festa popolare il lido. Tacque alfine e fuggi non senza rischio, del vulgo degli augei favola e fischio.
189
– Non è gran fatto che l'audacia stolta di questa gazza che sì mal borbotta, l'adunanza gentil ch'è qui raccolta (disse Venere bella) abbia interrotta. Già volse in altra forma un'altra volta con la schiera pugnar famosa e dotta, ma con l'altre Pieridi confuse, vergogna accrebbe a sé, gloria ale Muse. –
190
Amor che vede di quel canto lieto la madre intesa ala piacevol guerra, volando intanto ove 'l vicin mirteto insidiosa chiave asconde e serra, volge anelletto picciolo e secreto e con gagliardo piè batte la terra; ed ecco d'acqua un repentino velo che fa pelago al suolo e nube al cielo.
191
Apena il piede il pavimento tocca e l'ordigno volubile si move, che 'l fonte traditor subito scocca saette d'acqua inaspettate e nove, e prorompe in più scherzi e mentre fiocca tempesta par, quand'è sereno e piove. Spicciano l'onde ed aventate in alto movono a chi nol sa furtivo assalto.
192
Come qualora a Roma il sesto giorno del suo sommo pastor riporta l'anno, le fusette volanti a mille intorno col fermamento a gareggiar sen vanno, ma ne riedon poi vinte, e nel ritorno lucido precipizio a terra fanno, e fanno le cadenti auree fiammelle un diluvio di folgori e di stelle;
193
così 'l bel fonte in più fonti si sparse, senon quanto diverso è l'elemento. Questo gioco bagnò, quel talor arse, e l'una pioggia è d'or, l'altra d'argento. Alcun non sa di lor come guardarse da quel furor ch'assale a tradimento. Altrui persegue e quanto più lo schiva, dov'uom crede salvarsi ivi l'arriva.
194
Ahi crudo Amor, versar fontane e fiumi arte non è che tu pur ora impari, avezzo già per soliti costumi le tue fiamme a spruzzar d'umori amari. E non ti basta ognor da' nostri lumi lagrimosi stillar ruscelli e mari, ma spesso vuoi che gl'infelici amanti spargano il sangue ove son scarsi i pianti.
195
Fugge la dea di mille rivi e mille bagnata il sen col suo bei foco in braccio. – E queste (dice a lui) gelide stille, che m'han tutta di fuor sparsa di ghiaccio, tosto rasciugherò con le faville di que' sospiri ond'io per te mi sfaccio. – Va poi seco in disparte e così, lassa, in penoso piacer l'ore trapassa.
196
Già tramontar volea la maggior stella e del giorno avanzava ancora poco, quando col bell'Adon Venere bella partì da quel delizioso loco. – Doman, dolce mio ben (gli soggiuns'ella) ai primi lampi del diurno foco ne verrai meco a visitare insieme de' regni miei le meraviglie estreme.
197
E 'l mio carro immortal vo' che ti porti su i sereni del ciel campi lucenti, a più vaghi giardini, a più begli orti, dove in vece di fiori ha stelle ardenti. Magion d'incorrottibili diporti, patria beata dele liete genti, non deve a te mia gloria essere ascosa che degna è ben del ciel celeste cosa.
198
Quivi data per me ti fia licenza di contemplar con mortal'occhi impuri quante d'alta beltà somma eccellenza donne avran mai ne' secoli futuri. Benché m'ingombri il cor qualche temenza e vo' che la tua fè men'assecuri, non alcuna di lor, mentre la miri, a me ti tolga ed al suo amor ti tiri. –
199
Seben la dea d'amor così dicea, non n'era la cagion solo il diletto, ma perché desviarlo indi volea, non senza aver di Marte alto sospetto, sapendo ben, che la sua stella rea il risguardava con maligno aspetto, e temea non le fusse al'improviso dentro le braccia un dì colto ed ucciso.
200
Sorgea la notte intanto e l'ombre nere portava intorno e i pigri sogni in seno. Del'immortali sue lucenti fere tutto il campo celeste era già pieno e di quelle stellanti e vaghe schiere per le piagge del ciel puro e sereno la cacciatrice dea che fugge il giorno l'orme seguia con argentato corno.
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