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ilmarino testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #
CANTO DECIMOSETTIMO
La dipartita
ALLEGORIA
Per la dolorosa separazione d'Adone e di Venere dassi altrui a divedere con quanta pena e difficoltà si priva la carne del suo godimento sensibile.
Per Tritone, mostro marino che, cavalcato da Venere ed allettato dalla promessa del premio amoroso, di qua e di là con larghe ruote trascorre il mare, si figura l'uomo sensuale, mezzo bestia quanto alla parte inferiore, ilqual posseduto e signoreggiato dalla volontà che gli promette piaceri e dolcezze, immerso dentro il pelago di questo mondo, va per esso delcontinovo senza alcun riposo con tortuosi errori vagando. Per Glauco, che in virtù d'un'erba mirabile, lavato da cento fiumi, di pescatore diventa dio, si disegna lo stato di colui ch'entrando nel gusto della vera sapienza e con l'acque della vera penitenza purgandosi delle macchie del senso, prende forma e qualità divina ed acquista la beatitudine e l'immortalità. Per la festa degl'iddii e delle ninfe del mare, ch'arridono al passaggio della dea, si ombreggia la salsedine essere amica alla generazione, come quella che per lo suo calore ed acrimonia è provocatrice della lussuria.
ARGOMENTO
Dal caro suo con lagrime e sospiri prende congedo Venere dolente; poi di Triton su 'l tergo alteramente solca tranquilli i liquidi zaffiri.
1
Quando due alme innamorate e fide si scompagnan talor per dura sorte, mortal angoscia ambe le vite uccide né proprio è la partita altro che morte. E s'è gran doglia allor che si divide l'alma dal corpo suo dolce consorte, che fia qualor ad alma alma s'invola, anzi in due si diparte un'alma sola?
2
O se potesse in un medesmo punto quando coppia che s'ama Amor diparte, aver ciascun due vite, onde disgiunto dala di sé più cara e miglior parte ed al'amato sen sempre congiunto, senza giamai partir girne in disparte, più lieta l'alma al dolce oggetto unita là dov'ama vivria che dove ha vita.
3
Deh! come volentier torrebbe un core farsi baleno o divenir saetta purché dal'arco poi che scocca Amore fusse aventato ove il suo ben l'aspetta. O quanto invidia al sol l'aureo splendore che va scorrendo il ciel con tanta fretta per poter con un raggio ardente e vivo visitar l'altro sole ond'egli è privo.
4
Felici augelli e fortunati venti cui penne da volar diede Natura; beati fiumi e rivoli correnti che di vagar pertutto hanno ventura; aventurose voi, stelle lucenti, ch'ardete in fiamma dilettosa e pura, e, se cangiate pur siti e ricetti, vi vagheggiate almen con lieti aspetti.
5
Misero quegli a cui per alcun modo convenga abbandonar delizia antica, che, come o schiantar ramo o sveller chiodo non si può senza strepito e fatica, così spezzar l'indissolubil nodo d'un vero amante e d'una vera amica, se l'un dal'altro si distacca e scioglie, non si può senza pianti e senza doglie.
6
Ed egli a lei sospira ed ella a lui risponde con sospir tronchi e tremanti. E così accorda gli stromenti sui Amor con tuono egual fra sé sonanti. Tai son le lingue mutole con cui favellano tra lor l'anime amanti. Con queste care epistole furtive pria che giunga il partir, l'un l'altro scrive.
7
Qual affanno credete e qual martoro di Ciprigna e d'Adon nel cor s'aduna mentre per ecclissar le gioie loro oscura s'interpon nube importuna? Chi lontano talor dal suo tesoro fu costretto a provar simil fortuna, potrà ben misurar con l'argomento del suo proprio dolor l'altrui tormento.
8
Gravida già di luce, il vago seno apria l'Aurora e partoriva il Giorno. Erano al parto lucido e sereno e l'Aure e l'Ore allevadrici intorno. Teti in conca d'argento un bagno pieno gli avea di perle e di zaffiri adorno; e fasce d'oro il Sole e l'Oriente porgea cuna di rose al Dì nascente.
9
I fidi amanti che tra' bianchi lini smarriti nel color dele viole avean fin presso agli ultimi confini spesa in vezzi la notte ed in parole, al dolce suon de' baci mattutini destar gli augelli e risvegliaro il sole. Sorgendo poi dale rosate piume apriro gli occhi e gli prestaro il lume.
10
Ella ch'al rito degli usati giuochi deve apunto quel dì girne a Citera, dove ne van da' circostanti luochi i suoi devoti ogni anno in lunga schiera e di vittime sacre e sacri fuochi onoran lei che 'n quelle parti impera, parlar non osa e non s'arrischia a dire, o parola mortal! che vuol partire.
11
Come se vuol talor putrido dente sveller con destra man maestro accorto, non su le fauci a por subitamente va del tenace can l'artiglio torto, ma con stil dilicato e diligente lo scalza in prima e porge al mal conforto, così Venere bella il bell'Adone, preparando l'affetto, al duol dispone.
12
Più volte si sforzò, ma non sapea come né donde incominciar devesse. Egli è ben ver che quanto a dire avea negli occhi scritto e negli sguardi espresse; e dal fanciul che quanto ella tacea pur con l'occhio e col guardo intese e lesse in quella dura e rigida partenza chiedea con vive lagrime licenza.
13
– Conviemmi (dice, e sciolto il freno al pianto gli fa monil d'ambe le braccia al collo) conviemmi pur (né di baciarlo intanto può l'ingordo desio render satollo) conviemmi ahi lassa, e con qual duolo e quanto e con che lingua e con che cor dirollo? conviemmi oggi da te far dipartita, idoletto gentil di questa vita.
14
Per celebrare il dì pomposo e festo passo a Citera e ne vien meco Amore. De' solenni apparecchi il tempo è questo onde là fassi al mio gran nume onore. Io parto sì, ma seben parto io resto e mi si parte insu 'l partire il core. Quest'assenzia, ben mio, fiera e crudele altro per me non fia ch'assenzio e fiele.
15
Breve l'indugio fia, breve il soggiorno, che sai ben tu ch'io senza te non vivo, né più in la differir voglio il ritorno senon quanto si chiuda il dì festivo. Tu, che movi cacciando i passi intorno dela solita scorta intanto privo, deh non andar dove l'audacia, figlia dela follia, ti guida e ti consiglia. –
16
Adon par ch'a quel dir gemendo voglia a favilla a favilla il cor disciorre. Risponder vuol, ma l'importuna doglia non lascia ala ragion note comporre; e s'alfin pur la lingua avien che scioglia, il duolo è che per lui parla e discorre. Forma rotti sospiri, accenti mozzi e sommerge la voce entro i singhiozzi.
17
– Dunque (dicea) dunque è pur ver che vuoi peregrina da me torcere i passi? Dì dimmi, e come abbandonar mi puoi romito abitator d'antri e di sassi? Perché privarmi, o dio, degli occhi tuoi? o dio! perché ten vai? perché mi lassi? e mi lassi soletto senon quanto mi faran compagnia la doglia e 'l pianto.
18
Cara la vita mia, deh dimmi, è vero? non più scherzar, qual fato or ne disgiunge? Ch'io né da scherzo ancor pur col pensiero posso o voglio da te vedermi lunge. Che farai? che rispondi? Io temo, io spero. Ah che pietà di me non ti compunge! Vedi volti quest'occhi in fonti amari, che pur giurar solevi esserti cari.
19
Veggio or ben io che dal tuo figlio avaro qualche breve talor gioia s'ottiene sol perché cresca alfin lo strazio amaro e si raddoppi il mal, perdendo il bene. Lasso, ei m'aperse un sol felice e chiaro per poi lasciarmi in tenebre ed in pene; prese il crudele a sollevarmi in alto per far maggior del precipizio il salto.
20
Se di votivi onori hai pur desio ed agli altari tuoi cotanto pensi, non è forse tuo tempio il petto mio? non son voti i pensier, vittime i sensi? Se vuoi dal popol tuo fedele e pio fiamme lucenti e peregrini incensi, non son vive faville i miei desiri? non son fumi odorati i miei sospiri? –
21
Ed ella a lui: – Chi detto avrebbe mai che chi dal volto tuo bear si sente sentir devesse poi tormenti e guai sol per mirarti ed esserti presente? E chi pensato avria che que' bei rai mi devesser mirar pietosamente e non rasserenar sol con la vista qual tempesta maggior del'alma trista?
22
Vedi vedi se strana è la mia sorte, ch'oggi la mia salute è per mio peggio. Le tue luci leggiadre eran mie scorte, or mi sento morir perché le veggio. Onde per non mirar la propria morte bench'altr'alma che te non ho né cheggio, torrei di dar quest'alma e bramo almeno per poter non partir, morirti in seno. –
23
Ed egli a lei: – Non so perché si lagni chi procaccia a sestessa il suo tormento. Per qual cagion da me ti discompagni se 'l non farlo è in balia del tuo talento? Quel duro cor, che mentre parli e piagni forma sì mesto e querulo lamento, sicome s'ammollisce a lagrimarmi, non potrebbe ammollirsi a non lasciarmi?
24
A che mostrarti afflitta e lagrimosa? Non più pianger omai ché 'l pianto è vano. Non sente passion molto penosa né molto il senso e l'intelletto ha sano, chiunque piagne per dolor di cosa cui rimedio è del suo arbitrio in mano. Perdona, o dea, se troppo ardir mi prendo e se per troppo amor forse t'offendo. –
25
Ed ella: – Adon, s'egli mi piace o dole cangiando nido e variando loco l'allontanarmi dal mio vivo sole, quantunque io sappia ben che fia per poco, comprenderlo ben puoi dale parole che dal centro del cor m'escon di foco. Chiedilo, se nol credi, a questi lumi già ricetti di fiamme, or fatti fiumi.
26
Ma che poss'io se mi rapisce e move violenza fatal di legge eterna? Decreto incontrastabile di Giove regge il mio moto e 'l mio voler governa. Piacesse al ciel che, per non girne dove oggi m'obliga a gir forza superna, stesse nela mia man questa partita sicome nela tua sta la mia vita. –
27
Ed egli: – Or come sai, s'amor n'è senza, formar ragioni a' danni miei sì belle? Non è buon segno aver tanta eloquenza quando di là dov'ama un cor si svelle. Chi sa del ben amato ala presenza trovar discolpe e queste scuse e quelle, animo ancor avrà ben a bastanza da soffrir volentier la lontananza.
28
Vanne vattene pur. Del mar tranquillo assai meglio potrai valicar l'onde se puoi sì di leggier queste ch'io stillo passar, quantunque torbide e profonde. Conceda il cielo al foco, ond'io sfavillo, acque piane pertutto, aure seconde. Abbia di te Fortuna ovunque vai cura maggior che tu di me non hai.
29
Oimé, spiegar ciò ch'io spiegar vorrei mi contende il martir che m'addolora. Poiché d'andar deliberata sei, del tuo fedel sovengati talora ed almen quantoprima agli occhi miei riporta il chiaro sol che gl'innamora. O ti riveggian pur pria che la cruda morte con mortal sonno a me gli chiuda.
30
Io so ben io, poiché del dolce e caro cibo divin che l'anima nutriva Amor ingiusto, ingiusto Fato avaro per legge crudelissima mi priva, né vuol ch'io pur d'un raggio ardente e chiaro de' begli occhi sereni almen mi viva, so ch'io morrommi; e fia beata sorte se per te, vita mia, corro ala morte.
31
Ma poiché nulla il mio tormento acerbo può con sì caldi e sviscerati preghi il rigor di quell'animo superbo intenerir, sì ch'a pietà si pieghi ed al duol che nel'alma io chiudo e serbo Amor vuol che d'amor premio si neghi, vita del morir mio, piacciati almeno darmi loco nel cor, senon nel seno.
32
Non cancelli o disperda onda d'oblio d'un sì bel foco in te la rimembranza; ma come vive il ver nel petto mio, ancor nel tuo ne viva ombra e sembianza. Questo picciol ristoro al gran desio, questa poca mercé solo m'avanza: quando albergo miglior mi sia disdetto nela cara memoria aver ricetto.
33
Se 'l giorno uscir vedrai dal'oriente che la gente consola afflitta ed egra, stando lunge da me, torniti a mente che tu sol sei quel sol che mi rallegra. Se spiegar dopo 'l dì chiaro e lucente vedrai la notte la sua benda negra, ricordati che tale anco m'ingombra senza te nebbia e gelo, orrore ed ombra.
34
Se fior vermiglio in prato o verdeggiante miri in vago giardino erbetta o foglia, dì teco allor: "Nel mio fedele amante alto e nobil desio così germoglia". S'incontri per camin fiume sonante, facciati rammentar dela mia doglia, pensando pur che più profondi e vivi versan per te quest'occhi e fonti e rivi.
35
Se di perle e rubin ricco monile o bel diamante intorno a te lampeggia, ti rappresenti la mia fede umile cui gemma oriental non si pareggia. E se 'n cristallo limpido e gentile si specchia il tuo bel volto e si vagheggia, imagina ch'ognor l'imagin cara nel mezzo del mio cor splende più chiara.
36
Così pertutto, ovunque andrai dintorno, di me mai sempre il simulacro finto di color vivi in vive forme adorno dal cortese pensier ti fia dipinto. Felice me, se quando poscia il giorno cede al'ombre notturne e cade estinto, ti stampasse dormendo il sonno vago la mia vagante e fuggitiva imago.
37
Ma ciò non spero. Esser non può giamai che 'l sonno, il sonno freddo, il sonno cieco accostarsi presuma a sì bei rai e venga tante fiamme a portar seco. Soffrirò dunque e mi fia pur assai ch'io del proprio dolor mi doglia meco e con lo spirto errante e peregrino possa sempre al mio ben farmi vicino. –
38
Qui tace e poi soggiunge: – Ahi! che serpendo mi va per entro il petto un freddo ghiaccio. Temo non tu, da me sazia fuggendo, al caro Marte tuo ne torni in braccio. Se questo è ver, di propria mano intendo scior del'amore e dela vita il laccio. Crudel, se non ti move il mio cordoglio, ben sei figlia del mar, nata di scoglio. –
39
Risponde l'altra allor: – Raro vien solo un mal, per aspro e per mortal che sia. Il separarmi con fugace volo dala tua vista e dala vita mia, sappi, ch'egli non m'è sì grave duolo né mi dà pena tanto acerba e ria, quanto il vederti piangere e sentire sì profondo dolor del mio partire.
40
Ma l'udirmi incolpar di poco fida, ciò più m'afflige. E credi, anima ingrata, ch'io con lo dio guerriero ed omicida cangiar mai deggia la mia pace amata? In lui spavento, in te beltà s'annida; ei tutto ferro e tu con chioma aurata; egli con fiere e sanguinose palme uccide i corpi e tu dai vita al'alme. –
41
Poi segue: – Se giamai porrò in oblio del mio costante amor l'alta fermezza, il ciel di me si scordi; o se pur io rimembrar giamai deggio altra bellezza, destin mi faccia ingiurioso e rio scontar con mille affanni una dolcezza. Facciami acerba e dispietata sorte pianger la vita mia nela tua morte. –
42
Ed egli: – S'altro stral giamai mi fiede di quel ch'uscio de' tuoi begli occhi ardenti, per questi prati, ovunque poso il piede, secchin l'erbette verdi e i fior ridenti. Semai rivolgo dal'antica fede ad altro oggetto i miei pensieri intenti, traggami iniqua stella inerme e stanco dove mostro crudel mi squarci il fianco. –
43
Con la man bella, a questo dir, la bocca leggiermente da lei gli fu percossa: – Or quai (gli disse) la tua lingua sciocca bestemmie infauste a proferir s'è mossa? Sovra chiunque un sol capel ti tocca cader più tosto il rio presagio possa. Taci, né più ciò dir quando tu giuri; lunge da te così malvagi auguri. –
44
Ciò detto, con pietoso e languid'atto la coppia alquanto il favellar ritenne e versando per gli occhi il cor disfatto pur da capo l'un l'altro a baciar venne, come fermar col pianto e far il patto volesser con le lagrime sollenne e consolando l'anime dolenti suggellar con le labra i giuramenti.
45
Così le gioie e le memorie estreme con soavi accoglienze in vari modi vanno alternando ed iterando insieme e restringon più forte i cari nodi. Lo sconsolato Adon lagrima e geme risaettato il cor d'acuti chiodi; Vener con roca e languida favella – Non pianger – dice e seco piange anch'ella.
46
Poiché i vezzi d'amor così su 'l letto replicati tra lor molto si sono, ecco che pur s'arrischia il giovinetto, pria ch'ella parta, a dimandarle un dono. E con tanti sospir, con tale affetto forma de' detti e dele voci il suono, ch'ella tutta a quel dir s'intenerisce, arde d'amore e di pietà languisce.
47
– Vedi pur quanto il sol col chiaro lume circonda e chiedi omai con franco ardire. Giuro per Stige, inviolabil fiume, nulla fia che si neghi al tuo desire. Sì potess'io del'immortal mio nume l'alta immortalità teco partire, ch'ognor non mi terria turbata e mesta sollecito timor che mi molesta.
48
Lassa, perché mi vieta avaro fato, fato avaro e crudele ad ambo noi, del mio divino spirito beato poter parte innestar ne' membri tuoi, sì che di viver poi ne fusse dato con un'anima sol commune a doi? Che basterebbe al'un'e l'altra salma di duo fedeli amanti una sol'alma. –
49
Così dic'ella e quegli allora il novo desio l'espon con fervide preghiere: – Sai ben che dopo quel che teco io provo sommo ed incomparabile piacere, altro trastul che travagliar non trovo con l'arco in man le fuggitive fere. Piacciati, prego, almen per un brev'uso di lasciarmi cacciar nel parco chiuso. –
50
Un parco in Cipro avea chiuso e secreto la dea d'Amor, pien di feroci belve. Salvo a Diana sol, quivi è divieto ch'altro pastore o cacciator s'inselve. Umile animaletto e mansueto raro v'appar come nel'altre selve. Da mostri orrendi, eccetto entro quel muro, tutto il resto del'isola è securo.
51
– Ah! (disse Citerea) quanto mi pesa irrevocabilmente aver giurato. – Tenta stornarlo dala folle impresa, tenta mollirgli l'animo ostinato. Ma può solo appagar la voglia accesa la chiesta grazia del piacer vietato; grazia ingrata a colei che la concede e dannosa e mortale a chi la chiede.
52
E perch'ei scorge che la dea ritrosa a quel caldo pregar non ben consente, vela i begli occhi d'una nebbia ombrosa e vibra umido d'ira il raggio ardente. – Poco curar degg'io fronte sdegnosa (diss'ella) e non mi cal d'occhio piangente perché, cor mio, più volentier sopporto di vederti colerico che morto.
53
Non voler, prego, ah, non voler, per dio! orme seguir di perigliosa traccia. Se di caccia o di preda hai pur desio, io sia la preda e sia d'amor la caccia. Sien le tue reti e i lacci tuoi, ben mio, quest'auree chiome e queste molli braccia; tolgano il dolce ciglio e 'l dolce sguardo l'ufficio al'arco e 'l ministerio al dardo. –
54
Tace e del vicin mal quasi presaga, non si sazia tenerlo in grembo stretto. Sente da un certo che l'interna piaga ritoccarsi aspramente in mezzo al petto che par ch'al'alma innamorata e vaga dica: – Tosto avrà fin tanto diletto. – Onde dubbiosa ed impedita il mira e di foco e di gel trema e sospira.
55
Dicele alfin: – Poiché sei fermo intutto ch'io ti deggia attener quanto ho promesso né teco il mio parlar porta alcun frutto, non mi voglio ritor quelch'ho concesso. Ma se non ami il mio perpetuo lutto e se ti cal di me, cura testesso; ed almen nel'esporti a tal periglio con riguardo procedi e con consiglio.
56
Bastar pur ti devrian qui nel'aperto tante pianure e collinette e piagge senza tentar per quel serraglio incerto bestie inumane, indomite e selvagge. Ma daché poco cauto e meno esperto baldanza pueril colà ti tragge, schiva fere voraci e non gir solo, ma conduci di ninfe armato stuolo.
57
Timida damma o semplicetto cervo vattene pur cercando in piano o in monte, ma d'alpestro animal crudo e protervo guardati d'irritar le brame e l'onte, cui né punta di stral né teso nervo faccia in fuga giamai volger la fronte. Deh! non far, vita mia, che l'ardir tuo uccidendone un sol n'uccida duo.
58
Fuggi s'irsuto ed ispido cinghiale vedi spumante di livor le labbia. Mostro d'orgoglio e di fierezza eguale fa pur pensier che l'Africa non abbia. Schermo seco non giova, ardir non vale, ché s'avanza in dispetto e cresce in rabbia; dove le luci minacciose e torte volga talor, là presso è pianto e morte.
59
Né giovenil temerità ti spinga l'ira a provar del'implacabil orso, come l'unghia nel sangue e 'l dente tinga rapito da furor senza discorso. Lagrimosa beltà, prego o lusinga al suo morso mortal non pone il morso, né pote altro giamai che strazio e strage le sue voglie appagar crude e malvage.
60
Ancor d'Ircania ala superba fera studia a tutto poter sottrarti lunge. Questa chi la persegue aspra guerrera, schernitrice de' rischi, opprime e punge. Più del marito Zefiro leggiera velocemente il fuggitivo aggiunge. Sparge d'ira le macchie e furia e freme ch'ognor de' cari parti il furto teme.
61
Né men d'ogni altro l'animal che rugge abbi sempre a schivar pronto l'ingegno. Non teme no, non teme il fier, non fugge asta, spiedo o spunton non gli è ritegno. Ciò che 'ncontro gli vien, lacera e strugge, ogn'intoppo gli accresce esca alo sdegno. Foco gli occhi al crudel, ferro gli artigli arma e sprezza iracondo armi e perigli.
62
Deh! se pur senza me creder si denno sì belle membra a sì dubbioso bosco, fa, dolce anima mia, quant'io t'accenno, campa di questi rei la rabbia e 'l tosco, ch'intelletto non han, mente né senno da conoscere in te quelch'io conosco. Non cura alcun di loro e non apprezza gioventù, leggiadria, grazia o bellezza. –
63
Qual rosa oppressa da notturno gelo o di pioggia brumale il crin diffusa, sovra le spine del materno stelo impallidisce languida e socchiusa, ma, se zefiro torna o l'alba in cielo, fuor del verde cappel sue gemme accusa e con bocca odorata e purpurina sorride al sole, al'aura ed ala brina,
64
tal parve apunto Adone, e men cruccioso il ciglio serenò torbido e tristo, onde folgoreggiar lampo amoroso tra i nembi dele lagrime fu visto; nel volto ancor, tra chiaro e nubiloso, fè di riso e di pianto un dolce misto e di duol vi dipinse e di diletto confuso il core un indistinto affetto.
65
Ella il ribacia e perché già più rara vede l'ombra del ciel farsi in levante, levasi per uscir con l'alba a gara tutta di vezzi languida e cascante. Mentre ch'è l'aria ancor tra bruna e chiara sorge e sorger fa seco il caro amante, le Grazie appella, i dolci nodi rompe e chiede da vestir l'usate pompe.
66
Giovinette attrattive e verginelle son queste, ignude e 'n sottil velo avolte, sempre liete e ridenti e sempre belle, sempre unite in amor né mai disciolte, di pari età, di par beltà sorelle, con palma a palma in caro groppo accolte, somiglianti tra sé mostrano espresso non diverso e non uno il volto istesso.
67
Dielle Eunomia ala luce e, già concette del gran dio degli dei, nacquer divine. Del'Acidalio, ancor che pure e nette, lavansi ognor nel'acque cristalline. E son tre sole al degno ufficio elette, Talia la dotta, Aglaia ed Eufrosine, bench'al numero lor poi Citerea abbia ancor Pito aggiunta e Pasitea.
68
Un'altra anco di più, che 'l pregio ha tolto d'ogni rara eccellenza a tutte queste, aggregata ven'è, non è già molto, e sempre di sua man la spoglia e veste. Celia s'appella e ben del ciel nel volto porta la luce e la beltà celeste; ed oltre ancor che come il cielo è bella, ha l'armonia del ciel nela favella.
69
O con abito pur che rappresenti ninfa selvaggia il suo pastore alletti, o dolce esprima in amorosi accenti, fatta donna civile, alti concetti, o talor spieghi in tragici lamenti reina illustre i suoi pietosi affetti, co' sospiri non men che con la laude chi ne langue trafitto anco l'applaude.
70
Talia, ch'ha de' teatri il sommo onore, invida a costei cede il primo vanto, onde veggendo pur la dea d'amore che le Grazie di grazia avanza tanto, non sol degna la fa del suo favore fra l'altre tutte e del commercio santo, ma per renderla intutto al cielo eguale sempiterna l'ha fatta ed immortale.
71
Viene al suo cenno allor, sì come ha stile quando avien che dal sonno ella si scioglia, il drappelletto nobile e gentile dela camera sacra entro la soglia. Reca di bisso candido e sottile orlata d'oro e profumata spoglia; di questa bianca e dilicata tela il non men bianco sen circonda e vela.
72
Gonna di seta e porpora contesta, dele ninfe di Lidia opra e lavoro, si stringe intorno in guisa di tempesta seminata pertutto a rose d'oro. Vesta ricca e real; ma non ha vesta pari a tanta beltà l'arabo o il moro. Degno fora a' bei membri abito e velo riccamato di stelle apena il cielo.
73
Sotto un'ombrosa ed odorata loggia de' suoi rami intessuta ella sedea, a cui di rose in sen purpurea pioggia scherzando ador ador l'aura scotea. Ed a comporle in peregrina foggia la chioma che disciolta le cadea, tutte tre da tre lati accorte e belle intorno l'assistean l'idalie ancelle.
74
L'una a destra le siede e con la destra lucido speglio le sostiene ed erge; l'altra lo sparso crin dala sinestra di finissimo nettare consperge; la terza poi con man scaltra e maestra le scarmigliate fila ordina e terge e dale spalle con eburneo dente ara le vie del crespo oro lucente.
75
Al'aura il crin, ch'al'auro il pregio toglie, si sparge e spande in mille giri avolto e 'l vel, ch'avaro in sua prigion l'accoglie, fugge e licenzioso erra su 'l volto. Sestesso lega e poi sestesso scioglie, ma legato non men lega che sciolto e si gonfia e s'attorce e scherza e vola per le guance serpente e per la gola.
76
Spesso ala fronte candida e serena qual corona dintorno aurea risplende; or fa degli orbi suoi rete e catena, or i suoi lunghi tratti a terra stende; talor diffuso in preziosa piena quasi largo torrente al sen le scende e par, mentre si versa in ricco nembo, Giove che piova ala sua Danae in grembo.
77
Ma quei liberi error frena e comparte l'ingegnosa ministra e lor dà legge. Molti ne lascia abbandonati ad arte, molti con morso d'or doma e corregge; parte ne chiude in reticella e parte per ordir groppi e cerchi ella n'elegge; e qual di lor per emular l'aurora di fiori ingemma e qual di gemme infiora;
78
e mentre solca con dentato rastro per diritto intervallo i biondi crini e dal sommo del candido alabastro termina in spazio angusto i duo confini, va tuttavia sovra leggiadro nastro intrecciando gli stami eletti e fini, dove con ami e calamistri accoglie tremolanti cimier, piumaggi e foglie.
79
Le trecce alfin distingue e quella e questa stringe in due masse eguali e poi l'aduna e forma in cima dela bionda testa con due corna superbe aurata luna. Del vulgo de' capei che 'ntorno resta, parte non lascia inordinata alcuna, ma ne fabrica e tesse in mille modi anella ed archi e labirinti e nodi.
80
Poiché perfette ognuna esser comprende delo stranio lavor le meraviglie, altra di rose a sovraporle intende ghirlandette odorifere e vermiglie, altra agli orecchi due lucenti appende dele conche eritree cerulee figlie, altra a l'eburnea gola affibbia in giro con brocche d'oro un vezzo di zaffiro.
81
Sovra un letto di fior Venere assisa il piombato cristal si tiene avante; quel lampeggia a' suoi lampi in quella guisa che suol d'Endimion la bianca amante; e mentre ivi per entro i lumi affisa pur come in fino orienta! diamante, fa de' fregi del collo e del'orecchio giudice l'occhio e consiglier lo specchio.
82
Ma de' piropi il tremulo splendore abbaglian del bel ciglio i dolci rai. Può de' rubini il folgorante ardore ala bocca gentil cedere omai; appo il candido dente il bel candore dela doppia union perde d'assai; e 'l puro odor che nele spoglie è chiuso da' fiati soavissimi è confuso.
83
Or poich'ha tutt'in punto arnesi e vesti, al bel viaggio indirizzando vassi e nel'uscir co' vaghi occhi celesti innamora gli sterpi, infiamma i sassi. Move i sembianti Amor, Lascivia i gesti, Grazia le piante e Maestate i passi. Così pian pian si parte e s'incamina con Adon lagrimoso ala marina.
84
Apena giunta insu la verde riva fa per invidia dileguar le stelle. Cedon gli orrori a quella luce viva, fuggon le nebbie e fuggon le procelle. Il ciel sorrise e 'l sol, ch'allora usciva, si specchiò nele luci ardenti e belle; onde parea con gemino splendore che duo fussero i soli e due l'aurore.
85
Come l'augel che le sue spoglie inferme dentro rogo odorifero consuma, poiché 'l risorto e giovinetto verme ha rivestito di novella piuma, prodigioso e redivivo germe dì purpureo splendor l'Egitto alluma e ritornando inver le patrie piaggie lunga striscia d'augei dietro si tragge,
86
così dovunque il piede o l'occhio gira, rendendo il suol fiorito, il ciel sereno, mille Amori la dea seco si tira. Qual sotto il lembo e qual le vola in seno e l'aere ov'ella ride, ond'ella spira, d'anime tutto amorosette è pieno, ch'al vivo raggio ond'è più chiaro il giorno sicom'atomi al sol scherzano intorno.
87
Scherzale intorno lascivetto e folle in mille groppi un nuvolo d'Amori; popolo ignudo, alata plebe e molle, sagittari feroci e feritori. Di palco in palco van, di colle in colle altri cogliendo, altri versando fiori. Parte l'oro pungente e 'l piombo aguzza, parte di vivo umor stille vi spruzza.
88
Qual di musico libro il grembo ha carco, qual va con cetra e qual con arpa in braccio; chi fere affronta e chi l'attende al varco, chi fiamme accende e chi vi mesce il ghiaccio; un scocca la saetta, un tende l'arco, un tesse un nodo, un altro ordisce un laccio, questi su l'ali stassi e quei leggiero d'un cigno o d'un pavon si fa destriero.
89
Quegli l'affrena e questi il fren gli allenta, l'un l'altro ingiuria, assale, urta e minaccia. Questi il compagno importunando tenta di trarlo a terra e quegli in fuga il caccia. Altri mentre sestesso in alto aventa ride cadendo, altri il caduto abbraccia. Dele cadute lor l'atto è diverso, chi boccon, chi supino e chi traverso.
90
Molti cercan ne' faggi i nidi ascosi dove stanno a covar le tortorelle; molti ne' tronchi degli allori ombrosi fabrican case e gabbinetti e celle; v'ha chi di vinchi e vimini viscosi implica l'amenissime mortelle; né manca chi gli augei caduti al visco chiude in gabbie di giunco o di lentisco.
91
Altri intrecciate e 'n lunga linea attorte di molti archi ha le corde insieme avinte, e poiché l'ha d'un elce a un ramo forte sospese e l'armi d'or deposte e scinte, quivi s'asside e più d'un suo consorte agitando il va poi con mille spinte. Si libra e vibra e mentre in aria sbalza quasi in mobile culla or cala, or s'alza.
92
Alcun giocando con aurate poma le bacia e gitta ala contraria banda; altri con pari e vicendevol soma pur baciando le prende e le rimanda. Sciolta ciascun di lor porta la chioma, a cui l'istesso crin scusa ghirlanda. E le faretre e le quadrella loro parte sono indorate e parte d'oro.
93
Arman la man di facellette ardenti e spesso avien che l'un l'altro saetti; ma senz'ira o dolor porgon ridenti agli strali arrotati ignudi i petti. Han qual d'ostro e qual d'or penne lucenti, varie sicome apunto han gli augelletti. Son vermiglie e cerulee e verdi e gialle e d'altri più color fregian le spalle.
94
Figli son dele ninfe e son germani d'Amor, d'eguale età, d'aspetto eguale. Sa ciascun d'essi ancor ne' petti umani vibrar la face ed aventar lo strale; ma fuorch'alme vulgari e cor villani arder non suole e saettar non vale. Solo il principe lor sdegna trofei di cor selvaggi e d'animi plebei.
95
– Chi fia di voi, vaghi fanciulli e fidi, che trovar sappia ove Tritone alberga? e prestamente a me l'adduca e guidi perché quinci mi porti insu le terga? Ite a cercarne i più riposti lidi, o che per l'acque egee forse s'immerga o che tonar con la sonora conca faccia del mar di Libia ogni spelonca.
96
Premio fia degno a sì leggiadra impresa nobil faretra a nobil arco aggiunta. Eccola là, sovra quel mirto appesa, di perle tutta e di rubin trapunta, di canne armata a cui non val difesa, canne guernite di dorata punta. D'indico avorio e d'arabo lavoro orli ha d'or, fibbie d'oro e lacci d'oro. –
97
Come al fischiar del comito supremo, quando ala ciurma incatenata accenna salpar il ferro ed afferrare il remo, stender la vela e sollevar l'antenna, vedesi il legno che con sforzo estremo tosto l'ali per l'acque al volo impenna; freme l'onda percossa, il lito stride, mentre a voga arrancata il mar divide,
98
così tosto che sciolse in note tali Vener la lingua, i faretrati augelli chi di qua, chi di là, battendo l'ali, si divisero aprova in più drappelli; e sparsi intorno per gli ondosi sali, questi confini investigando e quelli, tutte del mar, quasi corrieri e spie, ingombraro, esplorar l'umide vie.
99
Per lo Carpazio mar Triton la traccia di Cimotoe ritrosa allor seguiva. Spesso la tocca il fier, spesso l'abbraccia e si strugge tra l'acque in fiamma viva. Ella l'orrenda e spaventosa faccia del'ingordo seguace abborre e schiva e timidetta co' capegli sparsi va tra l'alghe più dense ad appiattarsi.
100
Fugge la ninfa e d'or in or le sembra che l'osceno amator le giunga sopra. La nudità dele cerulee membra cerca di scoglio in scoglio ove ricopra. Ei che l'alta beltà fra sé rimembra, sott'acqua a nuoto ogni suo studio adopra, e con lubrico guizzo il molle argento frange e rincrespa, ala gran preda intento.
101
– O (disse Amor) per entro i guadi algosi non han potuto e sotto il mar profondo a me tenersi i vostri furti ascosi, a me, che so quanto si fa nel mondo. Vienne ed appresta gli omeri scagliosi dela dea nostra a sostenere il pondo. Né vil fia la mercé di tua fatica: Cimotoe avrai di ribellante amica. –
102
Fuor del gorgo prorompe e in alto ascende il semipesce allor torvo e difforme. In stranio innesto si commette e rende la pistrice con l'uom misto biforme. Vela d'ondoso crin le braccia e stende con doppio corso biforcate l'orme. Tre volte il petto move e lieve e ratto, giunge in Cipro nuotando al quarto tratto.
103
Mentre il mostro squamoso approda al lido col vago stuol de' pargoletti alati, ecco si volge pur la dea di Gnido sospirosetta ai dolci lumi amati e prende alfin dal caro amante fido gli ultimi baci e gli ultimi commiati. – Core a dio, vita a dio (l'un l'altro dice) tu vanne in pace; e tu riman felice. –
104
Giace senz'onda il mar tranquillo in calma, brilla l'aria pacifica e serena, onde Triton sestesso al corso spalma dala fiorita e fortunata arena; ed a sì dolce e dilettosa salma sottopon volentier l'ispida schiena, perché de' suoi sospiri in tal maniera coglier, solcando il flutto, il frutto spera.
105
Quasi ombrella la coda in alto inarca la marittima belva ambiziosa. Squallido il tergo ove si preme e carca ha di murice viva e fresca rosa. Così Ciprigna il mar naviga e varca quasi in morbido letto o in grotta ombrosa, scorre i piani volubili a seconda e col candido piè deliba l'onda.
106
Già s'ingorga per l'alto e già la diva quanto perde del suol, del'onda acquista. Ma, qual cerva ferita e fuggitiva, indietro ador ador gira la vista, né dal'amata e sospirata riva torce il guardo giamai pensosa e trista. Vorria, né sa qual gelo il cor le tocchi, come vi lascia il cor, lasciarvi gli occhi.
107
De' promessi imenei lieto e gioioso e del'incarco suo Tritone altero, non fende già del pelago spumoso per dritto solco il liquido sentiero, ma va con giri obliqui il campo ondoso attraversando rapido e leggiero, rapido sì, che suol con minor fretta sdrucciolar saettia, volar saetta.
108
Arridon tutti al trapassar di lei de' regni ondosi i cittadini algenti. Alcun non è de' freddi umidi dei che non senta d'amor faville ardenti. Rinovella Alcion gli antichi omei, ardon l'alghe, ardon l'aure, ardono i venti. Umili i flutti e mansuete l'acque riconoscon la dea che da lor nacque.
109
Sorge dal fondo cupo e cristallino cantando a salutarla ogni sirena. Ciascuna ninfa e ciascun dio marino alcun mostro del mar preme ed affrena; cavalca altri di lor curvo delfino, altri lubrica conca in giro mena; e tutti fan da quella parte e questa a sì gran passaggiera applauso e festa.
110
Nice, una tigre, orribil mostro e sozzo, terror del'ocean, con alga imbriglia; Ligia, un montone il cui feroce cozzo le navi e i naviganti urta e scompiglia; tien di verde giovenco avinto il gozzo con molle giunco Panopea vermiglia; Leucotoe bianca, con rosato morso di cerulea leonza attiensi al dorso.
111
Regge Temisto a fren pigra lumaca, Cidippe un ceto con le fauci aperte. Nele latebre d'una grotta opaca margarite e zaffir coglie Nemerte ed a quel sol che 'l mar tranquilla e placa ne fa votive e tributarie offerte. Corrono in un drappel dal'onda eoa Ippo, Euanne, Calipso, Acasta e Toa.
112
Sparge le chiome ai zefiri Anfitrite di ciottoli consparse e di coralli; con le piante d'argento Egle e Melite fendon spumanti i mobili cristalli; Aci con Galatea varie partite mena di vaghi e leggiadretti balli; e seco le nereidi e le napee vanno e cent'altre ninfe e cento dee.
113
Essaco Esperia va cercando a nuoto per le pianure liquide e tranquille; Aretusa ed Alfeo, Prinno e Licoto spruzzan le nubi di lucenti stille; Climene e Spio, Cimodoce con Proto, Leucippe e Deiopea con altre mille del gran rettor del mar compagne e serve cantan gli amori lor, nude caterve.
114
Nettuno fuor del cavernoso claustro con Venilia e Salacia e Dori e Teti, gaiamente rotando il nero plaustro sovra quattro delfin lascivi e lieti, dà bando a borea, impon silenzio ad austro, fa che placido i moti il flutto acqueti. Di verde muschio e d'argentate brine molle ha la barba e rugiadoso il crine.
115
Non men come reina e come dea la sua bella consorte ha soglio e scettro. Da duo pescidestrier conca eritrea tirata inalza un bel sedil d'elettro; quivi anch'ella al passar di Citerea canta le fiamme sue con aureo plettro; tingon le pure guance ostri lucenti, son coralli le labra e perle i denti.
116
L'abito suo, che come il mare ondeggia, di scintille d'argento un lume alluma; bianco, ma 'l bianco imbruna, il brun biancheggia, talch'imita al color l'onda e la spuma. Sovra l'algosa chioma le lampeggia di brilli adamantini estrania piuma e treccia a treccia in bei volumi attorta, quasi groppo di bisce, in testa porta.
117
Incorona di gemme alto diadema la fronte trasparente e cristallina, a cui nel mezzo balenando trema più che stella di ciel, stella marina. Pende in duo globi dala parte estrema d'ambe l'orecchie gemina turchina, ed al collo, ale braccia in doppi giri fan monili e maniglie ambre e zaffiri.
118
Segue Forba con Forco; e Nereo il primo che 'ntreccia il bianco crin di verdi erbette, per farle onor dal fondo oscuro ed imo raguna ostriche fresche e perle elette; Melicerta il fanciul tra l'alga e 'l limo bacche e viole tenere framette; Ino l'abbraccia e mormorando insieme Palemon con Portun rauco ne freme.
119
Chi giù s'attuffa e chi risorge a galla, chi balza in aria e chi nel mar si corca; altri portato è da una foca in spalla, altri da una pistrice, altri da un'orca; qual sovra un bue marin trescando balla, qual su le terga d'una orribil porca; questi da un nicchio concavo è condotto e quegli immane una balena ha sotto.
120
Ed ecco insu quel punto uscir di fianco Proteo, del ciel del'acque umido nume, Proteo, che 'l gregge suo canuto e bianco menar ai salsi paschi ha per costume, Proteo, saggio indovin che talor anco si cangia in sterpo, in sasso, in fonte, in fiume, talor prende d'augel mentito volto, talor sen fugge in fiamma o in aura sciolto.
121
Or con l'armento mansueto e vago pasce giovenco la materna mamma; or salta orso brancuto, or serpe drago, segnato il tergo di sanguigna squamma; or veste di leon superba imago, armando gli occhi di terribil fiamma; or vien tigre, or cinghiale, or per le rupi latra fra' cani ed ulula fra' lupi.
122
Questi qualor la notte il mondo adombra, mentre il vento riposa e l'onda e 'l pesce, i solchi azzurri con sue schiere ingombra e i procellosi campi agita e mesce. Ma tosto ch'a fugar l'orrore e l'ombra di grembo a Teti, il sol si leva ed esce, cercar, fuggendo il caldo, ha per usanza in opaca spelonca ombrosa stanza.
123
Or la nova beltà ch'al sol fea scorno da' cavi scogli a viva forza il trasse, siché senza temer la luce e 'l giorno s'alzò dal'acque più profonde e basse e, tre volte girato il carro intorno, a Tritone accennò che si fermasse. Stetter taciti i venti e l'onde immote mentr'ei sciolse la lingua in queste note:
124
– O dea prole del mar, misera, e dove malguidato pensier ti guida e mena? Deh, qual vaghezza o qual follia ti move a cercar altro lido ed altra arena? O quanto meglio volgeresti altrove il camin che t'adduce a nova pena! Tu dal bell'idol tuo lunge ne vai e di sua vita il termine non sai.
125
De' giuochi citerei vai spettatrice dove accolta sarai con festa e canto, ma tragedia funesta ed infelice volgerà tosto ogni tua gioia in pianto. Offrir vedrai, come il destin mi dice, vittime elette al tuo gran nume santo; ma vedrai poscia un sacrificio infausto di chi ti fè del'anima olocausto.
126
Minaccia al bell'Adon mortal periglio fero ciel, cruda stella, iniquo fato; né molto andrà che 'l sol del suo bel ciglio fia d'eterna caligine velato; e di quel volto candido e vermiglio languirà secco l'un e l'altro prato; giacerà sparsa al suol la chioma bionda, di sangue e polve orribilmente immonda.
127
Già veder che l'assaglia e che l'uccida il mostro formidabile m'aviso. Da sacrilego dente ed omicida veggiogli il corpo rotto, il fianco inciso. Odo già le querele, odo le strida, veggio squarciato il tuo bel crine e 'l viso. Il veggio o bella; al vaticinio credi, se non ami il tuo danno, indietro riedi. –
128
Antivedendo il suo vicin tormento, Proteo con questo dir Ciprigna assalse. Ella ascoltollo, ancorché l'onda e 'l vento fer che 'l tutto distinto udir non valse. Egli il ceruleo suo spumoso armento sferzato allor per le campagne salse, doglioso in atto sospirando tacque e lievemente s'attuffò nel'acque.
129
Restò d'alto stupor pallida e muta e per le vene un freddo gel le corse, Venere bella, e con puntura acuta tarlo di novo dubbio il cor le morse; onde tra' suoi sospetti irrisoluta fu d'indietro tornar più volte in forse, dal timor, dal dolor confusa tanto che non sapea senon disfarsi in pianto.
130
Il gran tenor dele parole intese fu saetta mortal che la trafisse, talché Triton ben vide e ben comprese la cagion di quel duol che sì l'afflisse. Quindi il corso tra via lento sospese e 'n pietos'atto a lei si volse e disse: – Deh! qual cura noiosa or la tua luce conturba sì ch'a lagrimar t'induce?
131
A quella smorta e lagrimosa faccia, al sol di que' begli occhi or fatto oscuro, chiaro ben m'avegg'io quanto ti spiaccia l'alto presagio del gran mal futuro, ch'orribil morte al bell'Adon minaccia pria che sia de' verd'anni il fior maturo. Ma per cose giamai gioconde o meste alterar non si deve alma celeste.
132
Del sovrano motor l'amata prole, di quanto amor governa alta reina, che non farà? che non potrà, se vole? qual legge astringer può forza divina? Facile, o dea, ti fia s'al tuo bel sole perpetua notte empio destin destina, con quell'impero che lassù t'è dato, vincer natura ed ingannare il fato.
133
Spesso per grazia al'uomo il ciel concede le sue tempre eternar caduche e frali. Arianna non conto e Ganimede ch'al'alte deità son fatti eguali e per Bacco e per Giove ancor si vede che tra le stelle vivono immortali. L'essempio più vicin solo ti mostro d'un noto cittadin del regno nostro.
134
Glauco che da Nettuno infra lo stuolo ascritto fu dela marina classe, pria ch'entrando nel mar, lasciando il suolo, fatto scaglioso dio forma cangiasse, era vil pescatore, avezzo solo ale reti, ale canne ed ale nasse. Ma per somma ventura ottenne in sorte, benché mortal, di superar la morte.
135
Sovra la spiaggia un dì del mar beoto, vestito ancor dela terrena spoglia, d'un'erba estrana e di vigore ignoto colse e gustò miracolosa foglia, e nascersi nel cor di girne a nuoto di subito sentì pensiero e voglia e 'ntutto uscito del'umana usanza altra natura prese, altra sembianza;
136
mutò figura, il corpo si coperse tutto di conche e divenn'alga il crine ed apena in tal guisa ei si converse che saltò dale sponde al mar vicine; e poich'entro le viscere s'immerse dele vaste e profonde acque marine, purgato il velo uman da cento fiumi s'assise a mensa alfin con gli altri numi.
137
Or il pianger che val? perché le ciglia non volgi omai di torbide in serene? Ben lice a te, che del gran dio sei figlia, da cui felice ogni influenzia viene, con simil privilegio e meraviglia sottraendo al gran rischio anco il tuo bene, operar quel che fu talor concesso nonch'al divin favore, al caso istesso.
138
Seben la falce ria troncar la vita disegna inbreve al giovinetto acerba, dal debito commun puoi con l'aita francarlo tu di quella incognit'erba; e torcendo al suo fil linea infinita malgrado dela parca empia e superba farlo passar, pria ch'ella abbia a ferire, al'immortalità senza morire. –
139
La dea que' detti ascolta e non risponde, ma tace alquanto e sta tra sé pensosa. Pensando va come aver possa e donde quella mirabil erba aventurosa, dentro le cui bennate e sacre fronde vive virtù sì singolare ascosa, ché ritrovar non sa via più spedita d'assecurar la vita ala sua vita.
140
Rotto alfine il silenzio, ella gli chiede in qual parte abbia Glauco il suo soggiorno e, se volendo ir a cercarlo ei crede, di poterla condurre e far ritorno tanto che possa poi, quand'egli riede, a Citera arrivar l'istesso giorno, perché convien che per la via men lunga quella sera medesma ella vi giunga.
141
– Benché per tutto il mar (soggiunse allora il trombetta del'onde) abbia ricetto, suol più ch'altrove in Ponto ei far dimora e per questa cagion pontico è detto. Ma se fia d'uopo, andar potrenvi ancora, e volar per quest'acque io ti prometto. S'avesse ancor nel'ocean l'albergo, nel'ocean ti porterei su 'l tergo.
142
Purché tu, da cui sol la piaga mia può salute sperar, mi prema il dorso, purch'affrenato e governato io sia da sì soave e sì felice morso, oggi sfidar per la cerulea via i destrieri del sole ardisco al corso e vo' del sol più presto e più leggiero circondar dela terra il cerchio intero. –
143
Tace e rade pria Rodo, isola dove di Ciprigna e del Sol la figlia nacque, e 'n cui la saggia dea nata di Giove i primi altari aver già si compiacque, onde colui che l'universo move, oro in grembo le sparse in vece d'acque; ricca del gran colosso, immensa mole, simulacro del sol ch'offusca il sole.
144
Quindi a Carpato passa e passa a Creta che per gran tratto entro 'l suo mar si sporge e di cento città pomposa e lieta e del bosco di Giove altera sorge e 'l labirinto, onde l'uscir si vieta, per infamia famoso, entro vi scorge e 'l monte Ideo che 'l dittamo conserva, fido refugio ala trafitta cerva.
145
Ad Egla poi, che fu poi detta Sime dala figlia d'Ialiso, ne viene. E Telo incontra che le glorie prime de' fini unguenti dala fama ottiene. Dele Calinne le frondose cime, d'Astipalea le pescarecce arene varca e pur degli amori amato nido, di duo porti superba, addita Gnido.
146
Scopre Nisiro al cui pesante sasso Polibote soggiace e poscia vede l'alto muro e 'l castel d'Alicarnasso de' principi di Caria eccelsa sede, e 'l mausoleo che 'n quel medesmo passo dela fè d'Artemisia altrui fa fede, e non lontano Salmace che 'n doppia forma duo sessi, osceno fonte, accoppia.
147
Indi gli appar la dilettosa Coo, per Ippocrate chiara e per Apelle, onde di stame e di lavoro eoo vengon le vesti preziose e belle; e 'ngolfandosi apien nel mar Mirtoo, terre discerne e region novelle e senza intoppo alcun trascorre Claro, Patmo e Leria in un punto, Amorgo e Paro.
148
Vie più lieve ch'augello o che baleno, tosto di Delo al sacro lido arriva; vede d'Ortigia, ove sgravata il seno posò Latona, la felice oliva; Nasso da bacche tempestata e Teno costeggia e di Micon tocca la riva: quella i figli di Borea in grembo chiude, questa de' suoi giganti ha l'ossa ignude.
149
Del vago corso al'impeto fugace forze raddoppia e Siro attigne e Rena: l'una a morbo mortal mai non soggiace, l'altra di busti e di sepolcri è piena. Visita Citno d'ogni fior ferace e Sifno che ferace è d'ogni vena e fin presso a Serifo allarga il giro, dove le rane garrule ammutiro.
150
I verdi dumi poi scorge di Cea, ricca d'armenti e fertile isoletta; né tarda l'altra a discoprir ch'Eubea dala prole d'Asopo ancora è detta. Caristo a man a man che l'onda egea vagheggia intorno a trapassar s'affretta, ai cui bei marmi il frigio e l'africano e Paro istessa si pareggia invano.
151
Scorre a Giaro, ov'han gli essuli il bando e 'n cui de' topi la vorace fame rode l'acciar, de' Cafarei lasciando lontano alquanto il promontorio infame. Volgesi ad Andro e vien forte vibrando l'umide penne del'azzurre squame e fa l'estremo del suo sforzo tutto per superare il capriccioso flutto.
152
Fa senza indugio a Doliche tragitto, dico di Prannio ala vinosa valle, e dovunque la via taglia per dritto vedi di spuma innargentarsi il calle; eccol già dove cadde Icaro afflitto, ecco che Samo ha già dopo le spalle, Efeso già si mostra e già comparso il bel tempio s'ammira, ancor non arso.
153
Sorge incontro ad Arvisia e vede Chio di generosi pampini feconda, e Lesbo, che gli accenti estremi udio dela fredda d'Orfeo lingua, circonda, e di Tenedo, sacra al biondo Dio, prende e poi lascia la malfida sponda che l'oste greca ascose entro il suo porto per far a Troia sua l'ultimo torto.
154
Trattien la bella dea su le ruine d'Ilio le luci alquanto intente e fise e sospirando del gran regno il fine piagne gli errori del suo già caro Anchise. Ma quando mira poi l'acque vicine di Simoe ove il bel parto in terra mise da cui dee propagarsi il suo legnaggio, acqueta il duolo e seguita il viaggio.
155
Tant'oltre il nuoto suo spedito e pronto stende Tritone e tanto innanzi passa che, nonché del'Egeo, del'Ellesponto il vastissimo sen dietro dietro si lassa; e già l'altero corno, onde col Ponto cozza la Tracia, ad incontrar s'abbassa e dele Cianee sprezza gli orgogli, sassi guerrieri ed animati scogli.
156
Sbocca alfin nel'Eusin, ch'ai raggi vivi fiammeggia dela dea del terzo lume. Ed ella, pria ch'ala magione arrivi, chiede novelle del ceruleo nume. Ma da molte nereidi ode che quivi, benché d'usar sovente abbia costume, son molti di che più non vi soggiorna e rade volte ad abitar vi torna;
157
e la cagion che 'l tragge e l'allontana dal patrio loco, è la beltà di Scilla, Scilla orgogliosa vergine sicana per cui tra l'acque gelide sfavilla. Ei, daché la privò d'effigie umana magica forza e in mostro convertilla, là dove il faro in gran tempeste ondeggia la visita ogni giorno e la corteggia.
158
Sinistro augurio allor Venere prende che sia la speme al suo pensier precisa. Ma di trovarlo un tal desir l'accende che risolve d'andarvi in ogni guisa. Tritone intanto che 'l disegno intende di lei che tien su l'ampia groppa assisa, volgesi indietro e si raggira e guizza e ratto inver Sicilia il camin drizza.
159
La coda ch'egli in vece usa di briglia move il destrier del mare e 'l mar ne sona e 'n poche ore a fornir vien molte miglia sì l'amoroso stimulo lo sprona. L'alto sentier del Bosforo ripiglia e del'immenso Eusin l'acque abbandona e rivede Bizanzio e non lontano il Calcedone lascia a manca mano.
160
Corre verso Posidio e già sornuota la Bitinia e la Misia e già travalca la Propontide tutta e scherza e rota con stupor dela dea che lo cavalca. Di Cizico e di Lampsaco, devota al suo sozzo figliuol, la spiaggia calca e di novo ripassa il varco infido d'Elle che pianger fè Sesto ed Abido.
161
L'Egeo succede, entro il cui flutto insano Taso, ch'ha di fin or vene feconde, e Lenno vede ove mantien Vulcano officina di foco in mezzo al'onde e Sciro ancor, ch'al greco astuto invano tra sue false latebre Achille asconde e là dove colui che chiara tromba e del'uno e del'altro ha poi la tomba.
162
Lasciasi a tergo Pagase ed Iolco e Pelio, onde materia ebbe il lavoro del primo legno, che condusse a Colco Argo rapace dela spoglia d'oro, quando seppe Giason, traendo al solco fertile d'armi l'indomabil toro ed appannando al fier dragon le ciglia, d'Ete incantar l'incantatrice figlia.
163
Qui negli angusti guadi entra del mare che dal'Abante separa il Beoto; Opunte in prima e Tebe indi gli appare, dove i sassi dal canto ebbero il moto, ed Aulide ov'i Greci insu l'altare l'alta congiura confermar col voto; e col rapido Euripo oltre sen fugge al Sunio estremo ove 'l mar latra e mugge.
164
Su la destra poi torna inverso Atene e d'Eaco ala gran reggia appresso giunge, siché può di Corinto appo l'arene l'istmo veder ch'i duo confin congiunge. Spingesi ad Epidauro ed a Trezene e Scilleo lascia e lascia Argo da lunge; e quindi di Malea corre veloce a declinar la perigliosa foce.
165
E lungo il mar lacon per le remote spelonche onde non senza alto spavento da Tenaro a Pluton passar si pote, a Messenia si cala in un momento e si scaglia di là fino ale Plote che da' duo figli del più freddo vento quando seguir le tre sorelle rie ebber il nome dele sozze arpie.
166
Di Zacinto al bel margine s'accosta che 'n spessi boschi in mezzo al'onda è steso, né molto da Melena si discosta che da Cefalo poscia il nome ha preso. D'Itaca schiva la sassosa costa, picciolo scoglio e sterile e scosceso, ma per Ulisse suo chiaro riluce: così sola virtù gloria produce.
167
Resta Dulichio indietro e 'ndietro resta dela famosa Elea la piaggia bella, ch'ai destrier vincitor la palma appresta onde il lustro e poi l'anno Olimpia appella. Indi per colà dove aspra tempesta le rive ognor di Lepanto flagella striscia, serpe, volteggia e nel ritorno l'isole degli Echini aggira intorno.
168
Passando per l'Echinadi la dea a quel tragico mar rivolse il ciglio che del sangue latin prima devea e del barbaro poi farsi vermiglio. – O sacre al crudo Marte acque (dicea) quant'ira, quant'orror, quanto scompiglio, quai l'Europa da voi, quai l'Asia attende sciagure e mali in due battaglie orrende?
169
Di due pugne famose e memorande sarai campo fatal, piaggia funesta. Per l'una, celebrar Roma la grande deve al suo vincitor trionfo e festa. Per l'altra alte ruine e miserande Bizanzio piangerà misera e mesta, e per questa e per quella in mille lustri Leucate fia ch'eterno grido illustri.
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Questo, e sarà pur ver, ceruleo flutto che diè nel mio natal culla al gran parto sepolcro diverrà sanguigno e brutto del vinto egizzio e del fugace parto. D'alghe invece e di pesci avrà pertutto di cadaveri immondi il grembo sparto e tutta coprirà l'onda crudele di rotte antenne e di squarciate vele.
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Piango i tuoi casi, Antonio, e duolmi forte che t'appresti Fortuna oltraggio e danno poiché quei che t'induce a sì rea sorte è pur l'autor del mio mortale affanno. Ma chi potrà senon tormento e morte sperar giamai dal perfido tiranno, se 'n più misero stato ed infelice condanna anco a languir la genitrice?
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Tu dal'armi di Cesare sconfitto fuggi del Nilo ale dilette arene, ma dala strage del naval conflitto la bella fiamma tua teco ne viene. Io, da quelle d'Amore il cor trafitto porto e partendo, oimé, lascio il mio bene, né so se per destino unqua mi tocchi che l'abbian più da riveder quest'occhi.
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L'altro esterminio onde di por s'aspetta al turchesco furor morso e ritegno, fia d'ingiuria immortal poca vendetta contro il distruggitor del mio bel regno. No no, fuggir non puoi malvagia setta il castigo del ciel ben giusto e degno d'aver guasti ad Amor gli orti suoi cari e cangiate in meschite i nostri altari.
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Vedrò pur la tua luna, empio idolatra, nemico al sommo sol, mastin feroce, pallida, fredda, sanguinosa ed atra romper le corna in questa istessa foce. Fremi, furia, minaccia, arrabbia e latra contro l'invitta e trionfante croce; vedrò con ogni tua squadra perversa l'armata babilonica dispersa
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grazie al valor del giovinetto ibero, difensor del'Italia e dela fede, che del corsar per molte palme altero fiaccherà i legni e spoglierà di prede, spaventerà l'orientale impero, farà di Costantin tremar la sede, lasciando, Arabi e Sciti, i busti vostri scherzo del'onde e pascolo de' mostri. –
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Qui tace, indi di perle inumidito col vel s'asciuga de' begli occhi il raggio ché le sovien che 'n quel medesmo lito avrà l'essequie il maggior dio selvaggio quando, arrestando a mezza notte udito de' naviganti stupidi il viaggio, farà lunge sonar gli Acrocerauni l'ululato de' satiri e de' fauni.
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Mentre Venere bella in flebil atto del doloroso umor terge la guancia, Tritone Azzio trascorre e da Naupatto verso gli orti d'Alcinoo oltre si lancia. Soffia e sbuffa anelando e per gran tratto s'apre la via con la scagliosa pancia; e tanto allarga le robuste braccia ch'entro l'ionio sen tutto si caccia,
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e dagli estremi termini d'Epiro di Iapigia il confine ultimo afferra scorrendo in lungo e spazioso giro tutto il gran lembo che l'Italia serra, fino a quel braccio da cui già partiro l'onde crucciose la feconda terra, quando con fier divorzio a forza spinta restò da Reggio l'isola distinta.
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Giunta in Trinacria alfin Ciprigna bella di Peloro e di Zancle ala costiera, colà dove la misera donzella presa avea forma di rabbiosa fera, Glauco cercando in questa riva e 'n quella, s'accorse in somma pur ch'egli non v'era; e le compagne poi di Galatea per certo ancor n'assecurar la dea.
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– è ver (dicean) che da che Circe in scoglio mutata a questa ninfa ha la figura, spesso a narrar ne viene il suo cordoglio al'aspra selce che di lui non cura; ma perché colma d'ostinato orgoglio più tra l'onde de' pianti ognor s'indura, per medicar quell'amorosa piaga ito è pur dianzi a ritrovar la maga.
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Nela costa del Lazio ov'ella stassi, l'innamorato e desperato dio molto non ha, con frettolosi passi quinci a pregarla supplice sen gio, o ch'almen per virtù d'erbe e di sassi gli faccia il proprio mal porre in oblio, o che, tornata ala sembianza antica, render la voglia a' suoi desiri amica. –
182
D'aver tanto travaglio invan perduto ala madre d'Amor forte rincrebbe e del fiero pronostico temuto l'infausto auspicio in lei sospetto accrebbe, ma temendo che troppo oltre il devuto tardi tornata a suo camin sarebbe, per ritrovarsi ala gran festa a tempo differì quell'affare a miglior tempo.
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Impon che 'l corso il più che può spedito volga a Citera al corridor guizzante, ch'essendo posta insu l'estremo sito del paese di Pelope a levante, dal tempestoso e periglioso lito di Sicilia non è molto distante. Quegli ubbidisce e 'n breve ecco ch'alfine del bel loco le spiagge ha pur vicine.
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Seben non pensò mai la dea d'Amore di far per tante vie camin sì torto, loda del mostro il dilettoso errore poiché in men che non crede è giunta in porto e con tanto paese in sì poche ore l'arcipelago tutto ha scorso e scorto; le Cicladi, le Sporadi e le rive pelasghe, eolie ed attiche ed argive.
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Per attuffarsi già nela marina l'auriga intanto lucido di Delo precipitoso i corridori inchina co' morsi al'acqua e con le groppe al cielo. Vede stillar dal crin pioggia di brina, dale nari sbuffar nebbia di gelo, ma veder del bel carro altri non pote più che l'estremità del'auree rote.
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In quell'ora ch'apunto avea Giunone dele faci notturne il lume acceso, venne in Citera a disgravar Tritone il curvo dorso del suo nobil peso. E poiché dela coda il padiglione stanco in lunghi volumi ebbe disteso, con verde giunco insu l'algose piume sen gio del petto ad asciugar le spume.
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