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ilmarino testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #
CANTO DECIMOTERZO
La prigione
ALLEGORIA
La prigionia d'Adone con tutti gli strazi che sopporta da Falsirena, ci fa scorgere gli effetti della superbia, quando per esser disprezzata entra in furore, e la vita tribulata del peccatore, quando addormentato nel vizio ed impigrito nella consuetudine, si lascia legare dalle catene delle pericolose tentazioni. Il cangiarsi in uccello è mistero della leggerezza giovanile, che, vaneggiando, non ha ne' suoi amorosi pensieri giamai fermezza. La fontana, in virtù della cui acqua egli ritorna al suo primo essere, allude alla divina grazia, laqual col mezzo della penitenza restituisce all'uomo la sua vera imagine, già contrafatta per lo peccato. Vulcano è simbolo di Satana, zoppo per la privazione d'ogni bene, brutto per la perdita de' doni della grazia, abitatore di caverne per la stanza delle tenebre infernali, destinato all'essercizio del fuoco per lo ministerio delle fiamme eterne. L'uno, dopo l'avere incatenato Adone, cerca d'ucciderlo; e l'altro, dopo l'aver sottoposto l'uomo alla sua tirannide procura intutto di dar morte all'anima. Senonché Mercurio, figura della celeste e vera sapienza, lo consiglia, l'aiuta e rende vane tutte quante le diaboliche insidie. La noce d'oro, ch'aperta somministra altrui lautissime mense, oltre l'esser simbolo della perfezzione e della bontà, vuol significare che l'oro si fa abondanza in qualsivoglia luogo, ancorché sterile, e che al ricco non manca da vivere morbidamente nelle penurie maggiori.
L'Interesse con l'orecchie asinili, che non gode della dolcezza dell'armonia, anzi l'aborre, ci rappresenta l'avarizia e l'ignoranza, che non si curano di poesie né si compiacciono di musiche. La trasformazione della fata e sue donzelle in bisce adombra l'abominevole condizione delle bellezze terrene e delle delizie temporali, lequali paiono altrui in vista belle, ma son piene di difformità e di veleno.
ARGOMENTO
Tenta la maga invan l'arti profane, poi schernir cerca Adon sott'altra forma; l'addormenta, l'inganna e lo trasforma; egli fugge, altri il segue, ella rimane.
1
Chi fu ch'ala tua lingua, o Zoroastro, concesse in prima autorità cotanta? Donde apprese il tuo ingegno ad esser mastro del'arte detestabile ch'incanta, l'arte che contro ogni possanza d'astro vincer natura e dominar si vanta? E come ponno iniqui carmi e rei del'inferno e del ciel sforzar gli dei?
2
Da qual forza fatal che gli corregge o da qual patto son legati e stretti? è necessaria o volontaria legge che sì gli rende altrui servi e soggetti, quasi chi tutto può, chi tutto regge tema d'un uom disubbidire ai detti? è talento o timor quelche gli move tant'opre a far prodigiose e nove?
3
Deh, quante volte dele lievi rote che si volgon sì ratto intorno ai poli veduto ha con stupor restarsi immote Giove l'immense e smisurate moli? Quante vid'egli ale malvage note le lune in ciel moltiplicarsi e i soli, scorrere i tuoni a suo dispetto e i lampi, scotersi il mondo e titubarne i campi?
4
Turbasi al suon de' mormorati accenti l'ordine dele cose e si confonde. Nettun, senza procelle e senza venti gonfio, i lidi del ciel batte con l'onde; poi quando più del mar fremon gli armenti ritira il piè dale vicine sponde e ricurvando insu l'umide fonti tornan per l'erta i fiumi ai patri fonti.
5
Ogni fera più fera e più rabbiosa la sua rabbia addolcisce e disacerba. Non è leone altier, tigre orgogliosa che non deponga allor l'ira superba. Vomita il fiel la serpe velenosa e i livid'orbi suoi stende per l'erba, e smembrata la vipera e divisa vive e rintegra ogni sua parte incisa.
6
Ma com'è poi che i versi abbian potere di separare i più congiunti cori, e 'l commercio reciproco e 'l piacere santo impedir de' maritali amori? Come del'alme il libero volere anco scaldar d'involontari ardori, ed agitar con empie fiamme insane di maligno furor le menti umane?
7
Falsirena aspettò che piene avesse Cinzia del'orbe suo le parti sceme ed oportuno alfin quel tempo elesse che congiunte avea già le corna estreme. E veggendo anco in ciel le stelle istesse seconde al'arte sua volgersi insieme, nel loco usato a celebrar sen venne de' sacrilegi suoi l'opra sollenne.
8
Sorge nel sen più folto e più confuso d'un bosco antico un solitario altare, d'alti cipressi incoronato e chiuso là donde il sole orientale appare, aperto a quella parte ov'ha per uso depor la luce ed attuffarsi in mare. Opaco orror l'ingombra e lo nasconde sotto perpetue tenebre di fronde.
9
Quivi idoletti vari e simulacri l'innamorata incantatrice accolse e quivi a più color tre veli sacri con caratteri e segni intorno avolse; e poiché a' membri suoi nove lavacri d'un'acqua fè che da tre fonti tolse, discinta e scalza del sinistro piede il foco e l'ostia ad apprestar si diede.
10
Con la casta verbena e 'l maschio incenso le fiamme pria del'olocausto alluma e di vapor caliginoso e denso e l'ara e l'aria orribilmente affuma. Poi di virtute occulta al nostro senso dentro il magico incendio arde e consuma mille con falce tronche erbe maligne, erbe apena ancor note ale madrigne.
11
Delo stridulo alloro asperse in esso le nere bacche innanzi dì recise, dela fico selvaggia il latte espresso e dela felce il seme ella vi mise e la radice ch'ha commune il sesso del'eringe spinosa anco v'intrise e fra gli altri velen che dentro v'arse la violenta ippomene vi sparse.
12
Arse l'erbe e le piante ad una ad una, sette volte l'altar circonda intorno, tre s'inginocchia ad adorar la luna, tre la contrada ove tramonta il giorno. D'una pecora poi lanosa e bruna con la manca tenendo il manco corno, con la destra il coltel, tra i fochi e i fumi trecento invoca sconosciuti numi;
13
e mentreché di Stige e Flegetonte l'occulte deità per nome appella, versa di nero vino un largo fonte infra le corna ala dannata agnella, non pria però che dala fosca fronte di lana un fiocco di sua man non svella e che nol gitti entro le brage,ardenti quasi primi tributi e libamenti.
14
Poscia con ferro acuto apre e ferisce la gola al'agna e la trafige e svena e del sangue che fuor ne scaturisce caldo e fumante un'ampia tazza ha piena. Con l'estremo del labro indi lambisce lievemente così che 'l gusta apena. Poi con olio e con mele in copia grande ala madre commune in sen lo spande.
15
Una colomba ancor vaga e lasciva uccise di candor simile al latte e, poiché quante piume ella vestiva tarpate l'ebbe a penna a penna e tratte, donolle in cibo a quella fiamma viva finché fur tutte in cenere disfatte; ma prima le legò nel'ala manca con rosso fil la calamita bianca.
16
Ciò fatto strinse in tre tenaci nodi una ciocca di crin, ch'io non so come, dormendo Adon, con sue sagaci frodi gli tolse Idonia dale bionde chiome. Sputò tre volte e 'n tre diversi modi disse, l'amante suo chiamando a nome: – Resti legato né mai più si scioglia il crudo sprezzator d'ogni mia doglia. –
17
A sembianza di lui di vergin cera imagin poi misteriosa ammassa e con un stecco di mortella nera ben aguzzo e pungente il cor le passa. E mentr'appo l'arsura atroce e fiera a poco a poco distillar la lassa, dice, volgendo il ramoscel del mirto: – Così foco d'amor strugga il suo spirto. –
18
D'ippopotamo un core alfine ha preso nela riva del Nil nato e nutrito che, dela nova luna ai raggi appeso, era ala sua fredd'ombra inaridito; e di faville oltracocenti acceso e di spilli acutissimi ferito, l'agita, il move, il trae come più vole mormorando tra sé queste parole:
19
– Ecco il cor di colui ch'io cotant'amo, ecco ch'io gli ho sett'aghi in mezzo affissi. Ecco che 'l tiro a me poi con quest'amo già fabricato sotto sette ecclissi. Ecco, sette carbon fatti del ramo che già colse mia madre entro gli abissi, desti dal sacro mantice v'aggiungo e sette volte intorno intorno il pungo. –
20
Da' sacrifici abominandi ed empi cessò la fata e si partì ciò detto, perché contro colui che duri scempi ognor facea del suo piagato petto, sperava pur dopo mill'altri essempi di veder nova prova e novo effetto. Ma di tante fatiche al vento spese alcun frutto amoroso indarno attese.
21
E come per magie mai né per pianti sperar potea rimedio a sì gran male, se la dea degli amori e degli amanti, ch'invocava propizia, avea rivale? se colei ch'ha negli amorosi incanti sovrano impero e potestà fatale, avea malconcia dele piaghe istesse, in quelch'ella chiedea, tanto interesse?
22
Poiché con lungo studio invan compose suggelli e rombi e turbini e figure, né seppe mai con queste ed altre cose quelle voglie espugnar rigide e dure, tornossi in voci amare e dolorose con Idonia a lagnar di sue sventure: – Lassa (diceale) in che mal punto il guardo volsi da prima a que' bei raggi ond'ardo.
23
Per mia fatal, cred'io, morte e ruina vidi tanta beltà non più veduta. Infin di quanto il ciel quaggiù destina difficilmente il gran tenor si muta. Chi può per molte scosse in balza alpina ben robusta piegar quercia barbuta? quercia ch'austro prendendo e borea a scherno, tocca col capo il ciel, col piè l'inferno?
24
Amo statua di neve, anzi di pietra, pertinace rigor, fermo desio. Egli gela ale fiamme, ai pianti impetra, né di voglia cangiar mi voglio anch'io. Io non mi pento, ei non però si spetra, guerreggia l'odio suo con l'amor mio. L'uno in esser nemico e l'altra amante non so chi di noi duo sia più costante.
25
Veggio moversi i monti anco a' miei versi, non ammollirsi un animato sasso. Talor de' fiumi indietro il piè conversi, fermar non so d'un fuggitivo il passo. I mostri umiliai fieri e perversi, né d'un altier garzon l'animo abbasso. Da me l'inferno istesso è vinto e domo, né son possente a soggiogare un uomo.
26
Semino in onda e fabrico in arena, persuado lo scoglio e prego il vento. Al'aspe egizzio ed ala tigre armena scopro la piaga mia, narro il tormento. Idol crudel, di cui mi lice apena sol la vista goder, di placar tento. Se far potesse a questa alcun riparo forse di questa ancor mi fora avaro.
27
Pregando, amando, lagrimando, ahi folle, ottener l'impossibile credei. Far una selce impenetrabil molle più tosto che quel core io spererei. Quanto più foco in me vede che bolle, tanto schernisce più gli affanni miei. E pur volta ad amar bellezze ingrate di chi mi fa doler prendo pietate.
28
Né per tante repulse io lascio ancora di correr dietro al'ostinate voglie. Ogni altra donna alfin che s'innamora sebene il morso al'onestà discioglie, pur sfogando il martir che l'addolora premio dela vergogna il piacer coglie. Io senza alcun diletto averne tolto sol dela propria infamia il frutto ho colto.
29
Vendo la libertà, compro il dolore, serva son di colui che 'n carcer chiudo e pago a prezzo d'anima e di core pianti e sospir che 'l fanno ognor più crudo. Da così caldo e così saldo amore qual mai potrebbe adamantino scudo, senon solo quel petto andar securo, altrui tenero forse, a me sì duro?
30
O beata colei che 'l cor gl'impiaga, felici que' begli occhi ond'arde tanto. Quanto o quanto sarei d'intender vaga chi sia costei ch'ha di tal grazia il vanto! Ma di pietra per certo o d'erba maga egli in sé cela alcun possente incanto poiché giovan sì poco a far che m'ami malie tenaci o magici legami. –
31
– Lungamente sospeso (Idonia dice) tenuto ha questo dubbio il mio pensiero. Ma tu che badi? ed a cui meglio lice spiar d'un tal secreto il fatto intero? Potrai ben tu de' fati esploratrice sforzar gli abissi a confessarti il vero, tu che sì dotta sei nel'arti ascose e sai cotanto del'oscure cose. –
32
Qui tace ed ella allor, che ben possiede quante ha Tessaglia incognite dottrine, non già di Delo i tripodi richiede, non di Delfo ricorre ale cortine, non di Dodona ai sacri boschi il piede volge per supplicar querce indovine, non a qualunque oracolo facondo abbia più chiaro e più famoso il mondo,
33
non il moto e 'l color cura degli esti nel'ostie investigar de' sacrifici, né degli augei le cal giocondi o mesti secondo il volo interpretar gli auspici, né destri o manchi i fulmini celesti osserva o sieno infausti o sien felici, né specolando va le stelle e i cieli, ma più tacite cose e più crudeli.
34
Nott'era allor che dal diurno moto ha requie ogni pensier, tregua ogni duolo, l'onde giacean, tacean zefiro e noto e cedeva il quadrante al'oriuolo, sopia l'uom la fatica, il pesce il nuoto, la fera il corso e l'augelletto il volo, aspettando il tornar del novo lume otra l'alghe o tra' rami o su le piume,
35
quand'ella prese a proferir possenti con lungo mormorio carmi e parole; e bisbigliando i suoi profani accenti atti a fermar nel maggior corso il sole, il corpo s'impinguò di quegli unguenti onde volar qual pipistrello suole e per la cui virtù spesso s'è fatta cagna, lupa, leonza, istrice e gatta.
36
Sovra un monton vie più che corvo nero che la lana e la barba ha folta e lunga, monta, ed acconcio ad uso di destriero, vuol che 'n brev'ora a Babilonia giunga. Quel, più ch'alato folgore leggiero per l'aria va senza che sprone il punga; ella ale corna attiensi e non le lassa, cavalca i nembi e i turbini trapassa.
37
Nata tra quel soldano era pur dianzi e 'l re d'Assiria aspra discordia e dura, e venuti a giornata il giorno innanzi, colma di morti avean la gran pianura. Giacean de' busti i non curati avanzi sparsi sossovra in orrida mistura e gonfio con le corna insanguinate a lavarsi nel mar correa l'Eufrate.
38
Le campagne dintorno e le foreste son di tronchi insepolti ingombre e piene. Veggionsi tutte in quelle parti e 'n queste porporeggiar le spaziose arene, fatte d'esca crudel mense funeste a lupi ingordi ed altre fere oscene ch'a monte a monte accumulate in terra le reliquie a rapir van dela guerra.
39
Ma dala maga che dal ciel discende son le delizie lor turbate e rotte, onde lasciate le vivande orrende fuggon digiune e timide ale grotte. Ella di fosche nubi e fosche bende che raddoppiano tenebre ala notte avolta il capo, inviluppata i crini, di quel tragico pian scorre i confini.
40
Per que' campi di sangue umidi e tinti vassene col favor del'ombra cheta e la confusion di tanti estinti volge e rivolge tacita e secreta; e mentre de' cadaveri indistinti, a cui l'onor del tumulo si vieta, calcando va le sanguinose membra, oscura cosa e formidabil sembra.
41
Non so se 'n vista sì tremenda e rea là nela notte più profonda e muta per la spiaggia di Colco uscir Medea l'erbe sacre a raccor fu mai veduta, quand'ella già rinovellar volea del padre di Giason l'età canuta. Atropo forse sola a lei s'agguaglia qualor d'alcun mortal lo stame taglia.
42
Scelse un meschin di quella mischia sozza che passato di fresco era di vita. Intero il volto, intera avea la strozza ma d'un troncon nel petto ampia ferita. Se sia guasto il polmon, se rotta o mozza sia l'aspra arteria ond'ha la voce uscita prendendo a perscrutar, trova la maga ch'ha le viscere intatte e senza piaga.
43
Pende il fato da lei di molti uccisi che del'alta sentenza in dubbio stanno e qual di tanti dal mortal divisi voglia ala luce rivocar non sanno. Se vuol tutti annodar gli stami incisi convien che ceda l'infernal tiranno e, le leggi del'erebo distrutte, renda ale spoglie lor l'anime tutte.
44
Or del misero corpo a cui prescritta l'ultima linea ancor non era in sorte, lubrico intorno al collo un laccio gitta e con groppi tenaci il lega forte. Indi accioché più lacera e trafitta resti la carne ancor dopo la morte fin dov'entra nel monte un cupo speco su per sassi e per spine il tira seco.
45
Fendesi il monte in precipizio e sotto apre la cava rupe antro profondo ch'arriva a Dite e discosceso e rotto vede i confin del'un e l'altro mondo. Quivi il mesto cadavere è condotto, loco sacro per uso al culto immondo, nel cui grembo giamai non s'introduce senon fatta per arte ombra di luce.
46
Nel sen che quasi ancor tepido langue fa nove piaghe allor la man perversa, per cui lavando il già corrotto sangue il vivo e 'l caldo in vece sua vi versa. Gli sparge ancora in ogni vena essangue di varie cose poi tempra diversa. Ciò che di mostruoso unqua o di tristo partorisce Natura, entro v'ha misto.
47
Dela luna la spuma ella vi mesce, la bava quando in rabbia entra il mastino, e 'l fiel vi mette del minuto pesce che 'l volo arresta del fugace pino. Ponvi l'onda del mar quando più cresce e di Cariddi il vomito canino e del'unico augello orientale il redivivo cenere immortale.
48
L'incorrottibil cedro e l'amaranto, l'immortal mirra e 'l balsamo v'interna, la feconda virtù del grano infranto e dela fera fertile di Lerna. Del fegato di Tizio ancor alquanto, che semedesmo rinascendo eterna, e del seme del bombice v'ha messo, verme possente a suscitar se stesso.
49
Il cerebro del'aspido vi stilla e la midolla del non nato infante e del nido aquilino, onde rapilla, vi pon la pietra gravida e sonante. Havvi l'occhio del lince e la pupilla del basilisco e del dragon volante, del'iena la spina e la membrana dela cerasta orribile africana.
50
Le polpe del biscion che nel mar Rosso guarda la preziosa margherita infra l'altre sostanze, e 'nsieme l'osso del libico chelidro anco vi trita; la pelle v'è ch'ha la cornice addosso dopo ben nove secoli di vita; né vi mancan le viscere col sangue del cervo alpin che divorato ha l'angue.
51
Ferri di ceppi e pezzi di capestri, fili arrotati di rasoi taglienti, punte d'aguzzi chiodi e sangui e mestri di donne uccise e di svenate genti, de' fulmini la polve e degli alpestri ghiacci il rigore e gli aliti de' venti e i sudori del sol, quand'arde luglio, vi distempra confusi in un miscuglio.
52
V'aggiunse d'Etna l'orride faville, di Flegra i zolfi e di Cerauno i fumi, del gran Cocito le cocenti stille, del pigro asfalto i fervidi bitumi e di mill'altri ingredienti e mille abominande fecce, empi sozzumi, infamie e pesti, onde la maga abonda, incorporò nela mistura immonda.
53
Poiché tai cose tutte insieme accolte nele fibre e nel core infuse gli ebbe e dal suo sputo infette altr'erbe molte virtuose e mirabili v'accrebbe, sovra il corpo incurvossi e sette volte inspirò 'l fiato a chi risorger debbe. Al miracolo estremo alfin s'accinse e 'l proprio spirto ad animarlo astrinse.
54
Vestesi pria di tenebrose spoglie, poi prende nela man verga nefanda ed ale chiome che 'n su 'l tergo accoglie, fa d'intrecciate vipere ghirlanda. Vie più ch'altra efficace indi discioglie la fiera voce ch'a Pluton comanda e move ai detti suoi sommessa e piana lingua ch'assai discorde è dal'umana.
55
De' cani imita i queruli latrati ed esprime de' lupi i rauchi suoni, forma i gemiti orrendi e gli ululati dele strigi notturne e de' buboni, i fischi de' serpenti infuriati, gli spaventosi strepiti de' tuoni, del'acque il pianto, il fremer dele fronde, tante voci una voce in sé confonde.
56
L'aer puro e seren s'ingombra e tigne a quel parlar di repentina ecclisse; veggionsi lagrimar stille sanguigne l'alte luci del ciel, mobili e fisse; bendò fascia di nubi atre e maligne, come la terra pur la ricoprisse e le vietasse la fraterna vista, dela candida dea la faccia trista.
57
Dopo i preludi d'un sussurro interno seco pian pian sommormorato alquanto, cominciando a picchiar l'uscio d'averno in più chiaro tenor distinse il canto: – Tartareo Giove, che del foco eterno reggi l'impero e del'eterno pianto, al cui scettro soggiace, al cui diadema tutto il vulgo del'ombre e serve e trema;
58
Persefone triforme, Ecate ombrosa, donna del'orco pallido e profondo, al più crudo fratel congiunta in sposa de' tre monarchi ond'è diviso il mondo, Notte gelida, pigra e tenebrosa, figlia del Cao confuso ed infecondo, umida madre del tranquillo dio, del'Orror, del Silenzio e del'Oblio;
59
dive fatali e rigorosi numi che sedete a filar l'umane vite e novo stame a chi già chiusi ha i lumi per dinovo spezzarlo ancora ordite; Cocito e tutti voi perduti fiumi, voi ch'irrigate la città di Dite; dolenti case, antri nemici al sole, aprite il passo al'alte mie parole.
60
O regi e voi dele malnate genti conoscitori ed arbitri severi, ch'a giusti e del fallir degni tormenti condannate gli spirti iniqui e neri; e voi, ministre ai miseri nocenti di supplici e di strazi acerbi e fieri, vergini orrende che gli stigi lidi fate sonar di desperati stridi;
61
e tu, vecchio nocchier, ch'altrui fai scorta a quelle region malvage e crude solcando l'onda ognor livida e smorta dela bollente e fetida palude; e tu, vorace can, che 'nsu la porta dela gran reggia, ov'ogni mal si chiude, perché chi v'entra più non n'esca mai, con tre bocche e sei luci in guardia stai,
62
se voi sovente ne' miei sacri versi con labra pur contaminate invoco, se mai di sangue uman grate v'offersi vittime impure in essecrabil foco, se le minugia de' bambin dispersi e dal materno sen tratti di poco posi gli aborti insu la mensa ria assistete propizi al'opra mia.
63
Già ritor non pretendo ai regni vostri le possedute e ben devute prede, né spirto avezzo a conversar tra mostri per lungo tempo oggi per me si chiede; quelche dimando de' temuti chiostri pose pur dianzi in su le soglie il piede e di questa vital luce serena ha quasi i raggi abbandonati apena.
64
Non nego a morte sua ragion né deggio del giusto dritto defraudar natura. Sol dele stelle e non del sol vi cheggio si conceda a costui picciola usura. Godan quegli occhi che velati or veggio di caligine cieca e d'ombra oscura, poiché per sempre pur chiuder gli deve, di poca luce un'intervallo breve.
65
Odi, spirito ignudo, anima errante, odi e ritorna al tuo compagno antico. Solo qual sia l'amor, qual sia l'amante rivela a me del mio crudel nemico. Riedi subito al loco ov'eri innante dato ch'avrai risposta a quant'io dico. Ritorna, alma raminga e fuggitiva, rivesti il manto e 'l tuo consorte aviva. –
66
Ciò detto non lontan mira ed ascolta del trafitto guerrier l'ombra che geme perché del carcer primo onde fu tolta tra' nodi rientrar paventa e teme e nel petto squarciato un'altra volta riabitar dopo l'essequie estreme. – Chi fin laggiù (prorompe) in riva a Lete mi turba ancor la misera quiete?
67
Lasso, e chi dela spoglia ond'io son scarco l'odiato peso a sostener m'affretta? Dunque contro il destin severo e parco il fil tronco a saldar Cloto è costretta? Deh! ch'io ritorni per l'ombroso varco ala requie interrotta or si permetta. Miser, qual fato sì mi sforza e lega che di poter morire anco mi nega? –
68
Ch'ei sia sì poco ad ubbidir veloce la donna spirital disdegno prende, onde con sferza rigida e feroce di viva serpe il morto corpo offende. Poi, con più alta e più terribil voce solleva il grido che sotterra scende e penetrando i più profondi orrori minaccia al'alma rea pene maggiori.
69
– Su su, che tardi ad informar quest'ossa? Qual più forte scongiuro ancora attendi? Credi che nel'abisso e nela fossa non ti sappia arrivar, se mel contendi? o ch'esprimer que' nomi or or non possa inuditi, ineffabili, tremendi che venir ti faranno a me davante ciò ch'io t'impongo ad esseguir tremante?
70
Megera e voi dela spietata suora suore ben degne e degne dee del male, m'udite? a cui parl'io? tanta dimora dunque vi lice? e sì di me vi cale? e non venite? e non traete ancora fuor del penoso baratro infernale da serpenti agitata e da facelle l'alma infelice a riveder le stelle?
71
Io vi farò dele magion notturne a forza uscir di scosse e di flagelli. Vi seguirò per ceneri e per urne, vi scaccerò da' roghi e dagli avelli. Sarete voi sì sorde e taciturne quand'io co' propri titoli v'appelli? o con note più fiere ed essecrande invocar deggio pur quel nome grande? –
72
A tai detti, oh prodigo! ecco repente il sangue intepidir gelido e duro e le vene irrigar d'umor corrente che già pur dianzi irrigidite furo. Ripien di spirto e d'alito vivente movesi già l'immobil corpo oscuro; già già palpita il petto ed ogni fibra ne' freddi polsi si dibatte e vibra.
73
I nervi stende a poco a poco e sorge e comincia ad aprir l'egre palpebre. Torna il calor, ma somministra e porge ale guance un color ch'è pur funebre. Pallidezza sì fatta in lui si scorge che somiglia squallor di lunga febre; e con la morte ancor confusa e mista giostra la vita che pian pian racquista.
74
– Di' di' (dic'ella allor) per cui si strugge colui per cui mi struggo? alzati e dillo. Qual il cor fiamma gli consuma e sugge? qual laccio il prese? e quale stral ferillo? Dimmi ond'avien che più m'aborre e fugge quant'io più 'l seguo e più per lui sfavillo? Se fia mai che si muti e quando e come narra e dammi del tutto il loco e 'l nome.
75
S'averrà che tu chiaro il ver mi scopra, non come fan gli oracoli dubbiosi, degna mercé riceverai del'opra in virtù de' miei versi imperiosi. Farò che più non tornerai di sopra né più verrà chi rompa i tuoi riposi; da chiunque incantar ti vorrà mai franco per tutti i secoli sarai. –
76
Così gli dice e carme aggiunge a questo per cui quant'ella vuol saver gli ha dato. Quei sparge alfine un flebil suono e mesto articolando in tal favella il fiato: – Non io non già nel mondo empio e funesto, donde giunto pur or son richiamato, dele parche mirai gli alti secreti né vi lessi del fato i gran decreti.
77
Pur quanto sostener pote il brev'uso d'una fugace e momentanea vita, dirò ciò che d'udirne oggi laggiuso mi fu permesso innanzi ala partita. Oggi ho di quel ch'a tua notizia è chiuso dal'empia Gelosia l'istoria udita; dal'empia Gelosia, Furia perversa, che con l'altre talor Furie conversa.
78
Disse che 'l bel garzon ch'a te sì piacque e che del'amor tuo cura non piglia, dal re di Cipro è generato e nacque per fraude già del'impudica figlia. Ama la bella dea nata del'acque, ella solo il protege, ella il consiglia; e seben or sen'allontana e parte, ama pur tanto lui che n'odia Marte.
79
Marte di sdegno acceso e di furore morte già gli minaccia acerba e rea; onde s'è l'amor tuo sterile amore, infausto anco è l'amor di Citerea. Volger ricusa ale tue fiamme il core perché fissa vi tien l'amata dea. Poi cotal gemma lo difende e guarda ch'esser non può che d'altro foco egli arda.
80
E poiché tu con fiero abuso e rio del'arti tue mi togli ai regni bassi e per un curioso e van desio fai che Stige di novo a forza io passi, né men crudel ch'al'alma al corpo mio, ucciso ancor, d'uccidermi non lassi, ascolta pur, ch'io voglio ora scoprirti quelche non intendea prima di dirti.
81
Permette il giusto ciel per questo scempio e per l'audacia sol del tuo peccato ch'osò con strano e non udito essempio sforzar natura e violare il fato, che non s'adempia mai del tuo cor empio il malvagio appetito e scelerato, né te l'amato bene amerà mai né tu del bene amato unqua godrai. –
82
Più non diss'egli e ciò la maga udito di geloso dispetto ebra s'accese e 'l busto in negra pira incenerito al fin più di morir non gli contese. Ritornò pur quel misero ferito, poich'a terra ricadde e si distese mandando l'ombra ale tartaree porte, dopo due vite ala seconda morte.
83
Ma già s'apre il giardin del'orizzonte, già Clori il ciel di fresche rose infiora, già l'oriente il piano intorno e 'l monte d'ostro e di luce imporpora ed indora; e già con l'alba a piè, col giorno in fronte sovra un nembo di folgori l'Aurora per l'aperte del ciel fiorite vie fa le stelle fuggir dinanzi al die.
84
Più veloce di stral ch'esca di nervo torna ov'Idonia il suo ritorno attende. – Questo barbaro (dice) empio e protervo non è qual sembra, anzi d'amor s'accende. Misera, e pur, benché d'amor sia servo, di chi langue d'amor pietà non prende. – Distintamente il tutto indi le spiega e di consiglio in tanto affar la prega.
85
– Non per questo dei tu (l'altra risponde) abbandonar l'incominciata impresa. Alma che bella fiamma in sé nasconde e di quel bel l'impressione ha presa, finché foco novel non venga altronde d'una sola beltà si mostra accesa. Mentr'ha l'occhio e 'l pensiero in quel che brama, altro non conoscendo, altro non ama.
86
Qualunque amante Amor infiamma e punge, ama l'oggetto bel che gli è presente, ma la memoria sol ne tien da lunge né la ritien però già lungamente. Tosto ch'altra sembianza a mirar giunge gli esce la prima imagine di mente. Sempre il desir, di nove cose amico, fa che 'l novello amor scacci l'antico.
87
S'una volta averrà che tu pervegna pur di quel core ad occupar la reggia, ch'oggi la madre di colui che regna nel terzo ciel s'usurpa e tiranneggia, essendo tu, senon di lei più degna, di bellezza almen tal che la pareggia, credimi, il primo ardor posto in oblio l'inessorabil tuo diverrà pio.
88
La gemma poi che fa gl'incanti vani e 'n cui tanta virtù stassi raccolta, modo ben troverem che dale mani o per froda o per forza a lui sia tolta. Contro l'arte che sforza i petti umani far allor non potrà difesa molta; e tu di Citerea preso l'aspetto, malgrado alfin di lei, n'avrai diletto. –
89
Falsirena a quel dir si riconforta e novo ardire entro 'l suo cor si cria peroché 'l favellar che speme apporta di cosa conseguir che si desia, risuscitando la baldanza morta fa creder volentier quel ch'uom vorria. Quindi a colei che di ciò far promette lascia cura del tutto e si rimette.
90
Miseramente in questo mezzo Adone in dura servitù languia cattivo passando la più rigida stagione squallido, afflitto e quasi men che vivo. Oltre il disagio e 'l mal dela prigione e l'esser del suo ben vedovo e privo, forte accresceagli al cor pena e cordoglio del crudo Idraspe il temerario orgoglio.
91
Chi può dir quanti affronti e quanti torti, ingiurie, villanie, dispetti e sdegni dal discortese uscier sempre sopporti, obbrobri intollerabili ed indegni? Ma tormento peggior di mille morti trapassa in lui d'ogni tormento i segni; altro novo martir che troppo il punge di tanti mali al cumulo s'aggiunge.
92
Feronia è più d'un dì che l'ha in governo; una nana è costei difforme e vecchia laqual sera e mattin con onta e scherno la vivanda gli reca e gli apparecchia. Furia, credo, peggior non ha l'inferno; può se stessa abborrir se mai si specchia. Sembra, sì laida e sozza è nel'aspetto, figlia dela Disgrazia e del Difetto.
93
Più groppi ha che le viti o che le canne ed ha corpo stravolto e faccia smorta, sbarrato il naso e lungo oltre due spanne, ricurvo il mento, ampia la bocca e torta. Come cinghiale infuor sporge le zanne e su l'omero destro un scrigno porta. Nele doppie pupille il guardo iniquo fa gli occhi stralunar con giro obliquo.
94
Dopo molte ignominie e molti scorni che gli fè questo mostro, e beffe e giochi, mentre con atti sconciamente adorni d'alimenti il nutria debili e pochi, motteggiandol pur un fra gli altri giorni con parlar balbo e con accenti rochi, sciolse la lingua, e poiché l'ebbe sciolta intoppò, scilinguò più d'una volta:
95
– O feminella vil, ch'ad uom sì inetto altro nome (dicea) conviensi male, né vo', rimproverando il suo difetto, far a Natura un vituperio tale, or se non sai d'amor prender diletto, il tuo sesso virile a che ti vale? O qual beltà ti scalderà giamai s'ad arder dela mia senso non hai?
96
Meraviglia non è se Falsirena sprezzasti, ancorché vanto abbia di bella, quando di vagheggiar ti degni apena più vaga tanto e signoril donzella; né per averne l'agio a prandio, a cena solo con sola in sì remota cella, sciocco che sei, richiedermi d'amore t'è mai bastato in tante volte il core.
97
Senon che certo assecurata io fui ch'uom non se' tu sicome gli altri sono, anzi un freddo spadon qual'è costui che qui ti guarda a tal mestier mal buono, te sol torrei come sol degno a cui facessi di mestessa intero dono dandoti inun co' miei sublimi amori, suo malgrado, a goder cibi migliori.
98
Poiché son dunque i tuoi pensier sì sciocchi e ciechi alo splendor de' raggi miei, convien che tu mi mostri e ch'io ti tocchi or or se maschio o pur femina sei. E quando avenga che le mani e gli occhi ti trovin poi qual mai non crederei, troncar ti vo' quell'organo infecondo che tu possiedi inutilmente al mondo.
99
Ma perché dubbio alcuno in te non resti e le bellezze mie non prenda a riso mira ciò che tu perdi e ciò ch'avresti, ecco t'apro il tesor del paradiso. Guarda se bella pur sotto le vesti altrettanto son io quanto nel viso. – Così dicendo s'accorciò la gonna e sì gli fè veder ch'ell'era donna.
100
Poi le luci girò bieche e traverse sì che mirando lui mirava altrove e quella bocca ad un sorriso aperse che sepoltura par se s'apre o move, e innanzi a lui sì oscene e sì diverse di sua disonestà prese a far prove che di fastidio ogni altro cor men franco fora assai meno a sofferir già stanco.
101
Un tratto pur l'impazienza il vinse, che sdegno degno e generoso il mosse: mentre la bruttarella a lui si spinse sfacciata per baciar più che mai fosse, Adone il pugno iratamente strinse e la sinistra tempia le percosse. Nel malpolito crin poscia la prese ed a forza di calci al suol la stese.
102
La fiera gobba intorno a lui s'attorse aviticchiata in mostruosa lutta e con l'ugne il graffiò, co' denti il morse, quanto arrabbiata più, tanto più brutta. Ai romori, ale strida Idraspe corse che risonar facean la casa tutta e sgridando il garri che la scrignuta, deputata a servirlo, avea battuta.
103
E con la sferza in mano anco il minaccia ch'egli il correggerà se non s'emenda. Idonia allor vi sovraggiunge e scaccia la coppia abominabile ed orrenda. Poi con più grata e più piacevol faccia vuol che 'l fatto da capo a dir le prenda. – La colpa (disse) è del tuo cor protervo che potendo esser re, vuol esser servo.
104
Tu vedi, o folle, pur che ti ritrovi nele forze di lei che sì disami. Perché non pronto ad accettar ti movi l'offerto ben, sel proprio mal non brami? Nulla quel tuo rigor fia che ti giovi che tu costanza e continenza chiami. S'uscir vuoi di molestie e di tormenti altr'armi usar che crudeltà convienti.
105
Pensa dunque al tuo meglio ed a testesso non negar tanta gloria in tanto male; che quando pur da te ne sia promesso sotto sincera fè d'esser leale, non sol quindi d'uscir ti fia concesso, ma sarai quasi ai divi in terra eguale. A bellezza, a ricchezza amor congiunto ti farà beatissimo in un punto.
106
Ma s'avien ch'atra nebbia al'alma ingrata gli occhi dela ragione abbia sì chiusi che la bontà dela benigna fata riconoscer non sappia, anzi l'abusi, cotesta oltr'ogni credere ostinata pertinacia crudel sola s'accusi di quanto mal per tal cagion t'avegna, ch'amor divien furor quando si sdegna.
107
Quanto gradita è più, vie più s'avanza in nobil alma umanità cortese. Ingiuriata poi muta l'usanza, pari è l'odio al'amor che pria l'accese. Non ha nel'ire sue freno a bastanza siché non corra a vendicar l'offese. Ma ciò più molto avien qualor si sprezza di magnanima donna alta bellezza.
108
Guardati, quando averla ora non vogli supplichevole amante e lusinghiera, d'averla poi con pene e con cordogli tiranna formidabile e severa. Conchiudo infin che se non sleghi e sciogli chi del suo prigioniero è prigioniera, senza trovar pietà fra tanti affanni in villana prigion perderai gli anni. –
109
Adon che senza scampo e senza aita le cose in stato pessimo vedea, pensò che s'egli cara avea la vita, cara se non per sé per la sua dea, mostrar gli convenia fronte mentita e di cangiar pensier finger devea e, l'opre al tempo accomodando in parte, far virtù del bisogno ed usar l'arte.
110
Comincia a serenar l'aria del volto e più grato a mostrarsi e men rubello, e sperando in tal guisa esser poi sciolto qualch'indizio gli dà d'amor novello. La prega intanto almen che gli sia tolto dela nana importuna il gran flagello, poiché gli è sovr'ogni altra aspra sciagura sì malvagia ministra a soffrir dura.
111
Lieta Idonia promette e perché 'l crede da lunga fame indebolito e smorto, ristorarlo s'ingegna e gli concede di soavi conserve alcun conforto. Ma nel'anel che Citerea gli diede volgendo ador ador lo sguardo accorto, pensa come gliel rubi e gli presenta alloppiato vasel che l'addormenta.
112
Doppio forte e gravoso è quel licore composto e di mandragora e di loto. Grato ala vista appare ed al sapore, ma secreto nasconde un fumo ignoto di sì strana virtù, di tal vigore, ch'opprime gli occhi e toglie il senso e 'l moto, atto a stordir non pur le menti umane, ma d'Esperia e di Stige il drago e 'l cane.
113
Senza pensar più oltre, Adone il beve né tarda molto ad operar l'effetto, ch'un sì tenace sonno il prese in breve che fu qual ebro a vacillar costretto e, vinto dal'oblio profondo e greve, girsen su l'orlo a riversar del letto. Idonia che del tutto era presaga, lasciollo alquanto ed appellò la maga.
114
La maga insu l'entrar, poiché gli fece del dito trar l'adamantino anello, un altro suo vene suppose in vece, somigliante così che parea quello. Poi fè legar con diece groppi e diece di rigid'oro il misero donzello, ch'al raddoppiar dele catene grosse, perché nulla sentia, nulla si mosse.
115
Salvo un sol chiavistel d'acciaio duro, la cui chiavetta altrui fidar non osa, tutta vuol che sia d'or semplice e puro quella ricca catena e preziosa, sì perché più che del metallo oscuro del più lucido e fino è copiosa, sì perché 'n laccio d'oro essendo stretta vuol con un laccio d'or farne vendetta.
116
Dopo lungo dormir quand'ei si desta e si ritrova in auree funi avinto dalo stupore, onde confuso resta, lo stupor del letargo intutto è vinto. La cara gemma a contemplar s'appresta non sapendo però ch'è l'anel finto; e perché non vi scorge il volto amato teme non contro lui sia forse irato.
117
– Amor insidioso, i tuoi piaceri com'han l'ali (dicea) veloci e lievi! come schernisci altrui? non sia chi speri gioie da te senon fugaci e brevi. Perché levar tant'alto i miei pensieri se poi precipitarmene volevi? Mi sommergi nel porto apena giunto e mi fai ricco e povero in un punto.
118
Fortuna ingiuriosa, i' non credea perder in erba la sudata messe, né ch'una stolta e temeraria dea nel'impero d'amor ragione avesse. Così dunque sen van, perfida e rea, con le speranze mie le tue promesse? dunque dal tuo furor perverso e duro tra le miserie ancor non son securo?
119
Non prestai fede ala tua madre, Amore, quand'era, ch'or non son, contento e lieto. Dicea ch'eri un mal dolce, un dolce errore, sagittario crudel, rege indiscreto, labirinto di fraude e di dolore, libera servitù, porto inquieto, in cui fè né pietà mai non si trova. Lasso, or tardi il conosco e 'l so per prova.
120
Ma tua tutta è l'ingiuria e tuo l'oltraggio del grave mal ch'ingiustamente io porto; né devresti soffrir, signor malsaggio, da sì bassa nemica un sì gran torto. Ecco mi toglie il desiabil raggio ch'era al mio lungo duol breve conforto e tien pur sotto giogo aspro e servile chiuso un tuo prigioniero in carcer vile.
121
Ed a te non bastò, cruda Fortuna, farmi nascer d'incesto in lido estrano, d'ogni paterno ben fin dala cuna spogliarmi e 'l regno mio tormi di mano e, ciò ch'è più, lasciarmi in notte bruna dal sol, che splende altrui, tanto lontano, ch'aggiunger nodi a nodi anco volesti: e pur scettri ed onor mi promettesti.
122
Contro le tue spietate e rigid'armi qual privilegio avran diademi e troni, se con chi langue e muor non le risparmi? se né pur anco ai miseri perdoni? se son trafitto, a che più saettarmi? quest'è l'eccelso stato ove mi poni? Precipizi maggior dunque hai prefissi a chi caduto è già sotto gli abissi?
123
Ahi, chi del fior del mio sperar mi priva? chi nega agli occhi miei l'amata aurora? Giungerò mai di tanti strazi a riva? godrò mai lieta o consolata un'ora? Com'esser può che senza vita io viva? sarà pur ver che non morendo io mora? Deh, che farò? com'avrò pace alcuna? Con voi parlo, Amor empio, empia Fortuna.
124
Fortuna empia, empio Amor, quai pene o danni non sostien chi per voi piagne e sospira? L'un è fanciul fallace e pien d'inganni, femina l'altra ebra d'orgoglio e d'ira. Questa sovra la rota e quei su i vanni, quei sempre vola e questa sempre gira. Cieco l'un, cieca l'altra, ed ambidui aquila e lince a saettare altrui. –
125
Con queste note or di sua sorte dura, or del crudel Amor seco discorre; Venere incolpa che di lui non cura, di Mercurio si duol che no 'l soccorre; quand'ecco entrato in quella stanza oscura Mercurio istesso ala sua vista occorre, ch'a dispetto di toppe e di serragli viene a porgergli aita in que' travagli.
126
Mercurio a cui già dala dea commesso fu il patrocinio di chi 'l cor le tolse, gli assistea sempre e 'l visitava spesso, seben lasciar veder mai non si volse. Veggendol dal digiun talvolta oppresso, cibi divini e dilicati accolse ed al mesto garzon poi la colomba gli recava nel becco entro la tomba.
127
Or colta ha l'erba rara e vigorosa, non so ben dire in quale estrania terra, contro la cui virtù meravigliosa con mille chiavi indarno uscio si serra, e se le piante alcun destrier vi posa ne svelle i chiodi e lo discalza e sferra. Con questa, senza strepito o fracasso, invisibile altrui s'aperse il passo.
128
Carna, dea dele porte e dele chiavi, di quella entrata agevolò le frodi e di volger per entro i ferri cavi l'adunco grimaldel mostrogli i modi. Le fibbie doppie, i catenacci gravi, le grosse sbarre, i ben confitti chiodi e le guardie saltar d'intorno al buco fè così pian che non l'udì l'eunuco.
129
Uditi ch'ebbe il messaggier del cielo del tribulato giovane i lamenti, a lui scoprissi e con un molle velo gli venne ad asciugar gli occhi piangenti. Poi tutto pien d'affettuoso zelo dolce il riprende e con sommessi accenti, che dela dea tra' suoi maggior perigli così mal custoditi abbia i consigli
130
e, ch'avisato in prima ed avertito, stato sia sì malcauto e sì leggiero che lasciato levar s'abbia di dito quel don maggior di qualsivoglia impero e dato agio a colei che l'ha rapito di porvi un falso anel simile al vero. Poi dela gemma adultera e mendace gli fa chiaro veder l'arte fallace.
131
L'altro inganno dipiù gli spiana e snoda del contrafatto e magico sembiante e dice che non miri e che non oda l'istessa dea se gli verrà davante, ch'altro non fia ch'insidia, altro che froda che s'apparecchia ala sua fè costante; che sotto finta imagine e furtiva sarà la donna e sembrerà la diva.
132
L'instruisce del tutto e gli ricorda ch'ella d'ogni malia porta le palme, che può con versi orrendi a morte ingorda far vomitar le trangugiate salme, tor malgrado di Dite avara e sorda al'urne i corpi ed agli abissi l'alme, può sommerger il sol nel mar profondo, sotterra il cielo e nel'inferno il mondo.
133
Dicegli che bisogno ha che si guardi dale lusinghe sue qualor ragiona, ch'ogni fata ha per esche accenti e sguardi onde gli animi alletta e gl'imprigiona; ma dopo i vezzi perfidi e bugiardi sazia alfin gli schernisce e gli abbandona. Molti uccider ne suol, talun n'incanta, volto in fera, in augello, in sasso o in pianta.
134
Soggiunge ancor che non dia punto fede ale solite sue leggiadre forme, poiché tutt'arte in lei quanto si vede e l'essere al parer non è conforme; e seben d'anni e di laidezza eccede qualunque fusse mai vecchia difforme, supplisce sì con l'artificio ch'ella ne viene a comparir giovane e bella,
135
e che ciò fa perché vezzosa in vista d'alcun semplice amante il cor soggioghi, con cui, ché raro avien ch'altri resista, sua sfrenata libidine disfoghi. Ma se 'l perduto anel giamai racquista, uscito fuor di que' profondi luoghi, e con esso averrà ch'egli la tocchi, tosto del ver s'accorgeranno gli occhi.
136
Finalmente lo slega e dela foglia dono gli fa che più del ferro è forte e l'ammaestra ancor come si scioglia quando allentar vorrà l'aspre ritorte. Seben fuggir non può fuor dela soglia, mentre il fiero guardian guarda le porte, basterà ben che quando altri nol miri, disgravato del peso, almen respiri.
137
Stupisce Adon di quanto egli racconta. L'altro di sen si trae, prima che parta, possente a ristorar la doglia e l'onta, lettra di linee d'or vergata e sparta. La rosa che 'l suggello ha nel'impronta mostra onde vegna e di chi sia la carta. Dice la riga in su 'l principio scritta: "Al suo bel feritor la dea trafitta".
138
La sciolse e parve inun gli si sciogliesse l'alma dal core e che 'n aprir s'aprisse. Poi quante note su v'erano impresse tanti baci amorosi entro v'affisse, perché considerò, quando la lesse, qual amor la dettò, qual man la scrisse. Fu del gran pianto che 'n sul foglio sparse sola mercé se co' sospir non l'arse.
139
– Veggio (il foglio dicea) veggio i tormenti che di soffrir per mia cagion ti sforzi. So le perfidie ordite e i tradimenti per far ch'un sì bel foco in te s'ammorzi. Per tanto la tua fè non si sgomenti, ma combattuta più, più si rinforzi; né rompa del tuo cor l'auree catene la ferrata prigion che ti ritiene.
140
Cruda prigion, ma vie più cruda molto quella che qui mi tien legata e stretta, ch'oltre che de' begli occhi il sol m'ha tolto, a chi mel toglie ancor mi fa soggetta. Bramo il piè come il core averne sciolto, ma la spada può più che la saetta, e seben la sua forza ogni altra avanza, amor contro furor non ha possanza.
141
Che mel senz'aghi e rosa senza spine coglier mai non si possa, è legge eterna. Stan le doglie ai piacer sempre vicine, così piace a colui che ne governa. Ma speriam pur che liberati alfine io d'un inferno e tu d'una caverni, tornando in breve al'allegrezza antica scherniremo l'amante e la nemica.
142
So che m'ami e se m'ami ami testesso perché più che 'n testesso in me tu sei. Se t'ho nel core immortalmente impresso, s'ardon tutti per te gli affetti miei, io nol vo' dir. Se tu non fossi in esso, anzi se me non fossi, io tel direi. Chiedilo a te, peroché 'n te, cor mio, più che 'n mestessa, anzi pur te son'io.
143
Cor del'anima mia, vivi e sopporta e viva teco il tuo ben nato ardore; e con un sol pensier ti riconforta ch'altri giamai di me non fia signore; e se forza a far altro or mi trasporta scusabil è, non volontario errore. Più non ti dico; a quanto a dir mi resta supplirà teco il recator di questa. –
144
Letti i bei versi, acconciò i ferri e sparve Mercurio, e quindi era sparito apena che la rival di Venere v'apparve ma tal che non parea più Falsirena. Quasi deluso da sì belle larve a prima vista Adon non ben s'affrena; e benché sappia esser beltà fallace, l'inganno è però tal ch'agli occhi piace,
145
e senonché del ver tosto s'accorse, tal fu del fido messo il cauto aviso, sendo senza l'anel, fuor d'ogni forse, creduto avrebbe al simulato viso, perché di Citerea tutti in lei scorse portamenti e fattezze e sguardo e riso. Ella in entrando il salutò per nome, ma volendo parlar non seppe come.
146
Già lontana la fiamma avea nutrita che nel cor le lasciò la bella stampa; orch'ella ha da vicin l'esca gradita, subitamente in novo incendio avampa. Fatta da quest'ardore alquanto ardita, al'usata battaglia allor s'accampa. Volse baciarlo e si restò per poco, pur moderò sestessa in sì gran foco.
147
Per occultar, per colorir la trama biasma di Falsirena il perfid'atto e cruda, ingiusta e disleal la chiama ch'a sì gran torto un tanto mal gli ha fatto. Promette e giura poi per quanto l'ama di far ancor che di prigion sia tratto. Purch'ella del suo amor resti secura, lasci poi di francarlo a lei la cura.
148
Gli s'asside da lato e gli distende mentre ragiona insu la spalla il braccio e tuttavia con la man bella il prende per annodarlo in amoroso laccio. Benché legato ei sia, pur si difende e 'l collo almen desvia da quell'impaccio, la testa abbassa e dale labra audaci torce la bocca e le nasconde i baci.
149
Fittosi in grembo il volto, a lei l'invola, anzi per non mirarla i lumi serra. Ma poiché pur assai d'una man sola durata è già la faticosa guerra, la manca ella gli pon sotto la gola e con la destra il biondo crin gli afferra, con una mano il crin gli tira e stringe con l'altra il mento gli solleva e spinge.
150
O sì o no ch'a forza ella il baciasse, veduto riuscir vano il disegno, stanca, dal'opra sua pur si ritrasse ed onta ad onta accrebbe e sdegno a sdegno. Le luci alzando allor torbide e basse, dela favella Adon ruppe il ritegno e disse: – Or quando mai, dea degli amori, fu ch'Amor ad amar sforzasse i cori?
151
Non è questo, non è vero godere, né modo d'appagar nobil desire. E qual gioia esser può contro il volere di chi non vuole alcun piacer rapire? Ma che? delizie ed agi ama il piacere; tra miserie e dolor chi può gioire? Non si denno dubbiose e malsecure le dolcezze mischiar con le sciagure.
152
Vuoi che tra ceppi e ferri io t'accarezzi? loco questo ti sembra atto ai diletti? Serba, ti prego, a miglior tempo i vezzi più ch'oportuni or importuni affetti. Attendi pur che s'apra o che si spezzi la prigione onde trarmi oggi prometti; né creder ch'ai trastulli io possa pria teco tornar che libero ne sia.
153
Bastiti ch'io di te non ardo meno; abita il corpo qui d'anima privo; l'anima alberga teco e nel tuo seno vive vita miglior ch'io qui non vivo. Né del carcere antico il duro freno d'altra beltà mi lascia esser cattivo; né quantunque dannata a sì rea sorte, la mia vita per te teme la morte.
154
L'oro crespo e sottil, l'oro lucente di quella bionda treccia ond'io fui preso quanto, o quanto, è più forte e più possente di questo ricco mio tenace peso. Questa catena è tal che solamente ritiene il corpo e non n'è il core offeso. Quella che mi legò la prima volta mi stringe il core e non sarà mai sciolta. –
155
Così dicea dissimulando e certo ogni altro, a cui del'orator d'Egitto stato non fusse un tanto inganno aperto o che non fusse in lealtate invitto, dal dolce oggetto ala sua vista offerto fuggir non potea già d'esser trafitto. Volgendo alfin l'ingannatrice il tergo desperata partì da quell'albergo,
156
e con Idonia far l'ultime prove del beveraggio magico risolve. Qual guastada abbia a torre e come e dove le 'nsegna e qual licor misto a qual polve. Quella il silopo a preparar si move che gli umani desir cangia e travolve; e nel secreto studio ove la fata chiude gli arcani suoi, s'apre l'entrata.
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Prende l'ampolla abominanda e ria e quel forte velen tempra e compone che, se fusse qual crede e qual desia, nonché le voglie infervorar d'Adone, far vaneggiar Senocrate poria e d'illecite fiamme arder Catone. Ma non tutto quel male e quello scempio permette il ciel che si promette l'empio.
158
La rea ministra ch'al garzon la mensa dopo la nana ha d'apprestare in uso, mesce il vin con quel sugo e gli dispensa nel'aurea coppa il maleficio infuso. Ma, non pari l'effetto aquel che pensa, il disegno fellon lascia deluso; apena ei l'acqua perfida ha bevuta che subito di fuor tutto si muta.
159
Tutte le membra sue (mirabil mostro) impiccioliro e si velar di penne e di verde e d'azzurro e d'oro e d'ostro piumato il corpo in aria si sostenne. S'ascose il labro, anzi aguzzossi in rostro, la bocca, il mento, il naso osso divenne; divenne carne l'incarnata vesta e si fece il cappel purpurea cresta.
160
Nele dita che fatte ha più sottili spuntan curve e dorate unghie novelle, fregian ristretto il collo aurei monili, si raccoglie ogni braccio entro la pelle, si ritiran le man bianche e gentili e s'allargano in ali ambe l'ascelle. Due gemme ha in fronte, ond'esce un dolce lume, siché più vago augel non batte piume.
161
Venere bella, ahi qual perfidia, ahi quale forte ventura il tuo bel sol t'ha tolto? La beltà, del tuo foco esca immortale, ecco prende altra spoglia ed altro volto. Strano malor del calice infernale in cui tosco maligno era raccolto! L'incantata bevanda ebbe tal forza che fu possente a trasformar la scorza.
162
Fusse del nume che 'l difende e guarda providenza divina o fusse caso, quando il vetro pigliò la maliarda, scambiò per fretta e per errore il vaso. Quelche fa che d'amore ogni cor arda, simile intutto a questo, era rimaso ed, ingannata dal'istessa forma, in sua vece adoprò quelche trasforma.
163
Tosto che s'è del fallo Idonia accorta mezzo riman tra stupida e dolente. Per trascuragin sua vede che porta l'amoroso rimedio altro accidente. – Oimé misera (grida) oimé, son morta! – e piagne invano, invan s'adira e pente; il crin si svelle, il petto si percote, stracciasi i panni e graffiasi le gote.
164
Già fuor dela prigion libero vola d'abito novo il novo augel vestito. Lamentarsi vorria, ma la parola non forma, come suol, senso spedito e gorgheggiando dal'angusta gola dela favella invece esce il garrito; né del'umana sua prima sembianza, tranne sol l'intelletto, altro gli avanza.
165
L'intelletto e 'l discorso ha solo intero, onde qual'è, qual fu, conosce apieno. Rimembra il dolce suo stato primiero e disegna al suo ben tornar in seno. Poi sentendosi andar così leggiero per l'immenso del ciel campo sereno, mentre al'albergo usato il camin piglia, di tanta agilità si meraviglia.
166
Lascia di quella ricca aurea contrada il sotterraneo infausto empio soggiorno, passa le grotta e per la nota strada fa nel superior mondo ritorno. Ferma il sole i destrieri ovunque ei vada, fermansi i venti a vagheggiarlo intorno, e secondando il va da tutti i lati musico stuol di cortigiani alati.
167
Del superbo diadema e del bel manto le pompe aprova ammirano e i colori, e con ossequi di festivo canto gli fan per tutto il ciel publici onori. Non ha mai la fenice applauso tanto dal'umil plebe degli augei minori qualor cangiando il suo sepolcro in culla ritorna, di decrepita, fanciulla.
168
Ma chi può dir quante fortune e quanti gravi passò tra via rischi e perigli? Quai rapaci incontrò mostri volanti che volser nel suo sen tinger gli artigli? Aquile e nibi a cui scampar davanti poco giovato avrian forze o consigli se 'l celeste tutor che n'avea cura non gli avesse la via fatta secura.
169
Non però d'augel fiero unghia né rostro gli nocque tanto in quella sorte aversa, quanto il mostro peggior d'ogni altro mostro, dico la Gelosia cruda e perversa. Uscita questa del suo cieco chiostro con l'amaro velen che sparge e versa lo dio del ferro armar gli parve poco se non facea gelar lo dio del foco.
170
Venne a Vulcano e le fu facil cosa far nel suo core impression tenace, che per prova ei sapea l'infida sposa d'ogni fraude in tai casi esser capace. Rode men la sua lima e più riposa attizzata da lui la sua fornace, che non fa di quel tarlo il morso fiero, che non fa la sua mente e 'l suo pensiero.
171
Mentre di rabbia freme e di dispetto, dal dolor, dal furor trafitto e vinto, a raddoppiargli ancor stimuli al petto vi sovragiunge il biondo arcier di Cinto. Questi dela cagion di quel sospetto gli dà più certo aviso e più distinto, onde il misero zoppo aggiunger sente sovra il ghiaccio del'alma incendio ardente.
172
Somiglia il monte istesso ov'ei dimora, che tutto è carco di nevosa bruma, ma dal'interne viscere di fora le faville essalando avampa e fuma. Né così 'l proprio mantice talora le fiamme incita e i pigri ardori alluma, come quell'instigar gli soffia e spira negli spirti inquieti impeto d'ira.
173
Dalo sdegno che l'agita e l'irrita sospinto fuor del nero albergo orrendo, con la scorta di Febo e con l'aita tra sé machine nove ei va volgendo. Quindi fu poscia di sua mano ordita la catena ch'Adon strinse dormendo. L'aurea catena che 'n prigion legollo fu lavor di Vulcan, pensier d'Apollo.
174
E non solo il lavor dela catena l'un di lor consigliò, l'altro esseguio, ma l'istessa prigion di Falsirena fu fabricata dal medesmo dio. Come ciò fusse o se notizia piena n'ebbe la fata allor, non so dir io. Prese d'un vil magnan vesta e figura e di tesser que' ferri ebbe la cura.
175
Tuttavia d'or in or quanto succede gli va scoprendo il condottier del giorno che del vaticinar l'arte possiede e d'ogni lume è di scienza adorno e, sicome colui che 'l tutto vede scorrendo i poli e circondando intorno dela terra e del ciel la cima e 'l fondo, può ben saver ciò che si fa nel mondo.
176
– Tu sai ben (gli dicea) quanto mi calse del tuo mai sempre, anzi pur nostro onore e che 'n me questo debito prevalse al'odio istesso dela dea d'amore, laqual per tua cagion, benché con false dimostranze il velen copra del core, per la memoria dell'ingiuria antica mi fu da indi in poi sempre nemica.
177
Orché pur d'Imeneo le sacre piume questa indegna del ciel furia d'inferno con novo scorno di macchiar presume, vuolsi ancora punir con novo scherno; e posciaché 'l suo indomito costume a corregger non val freno o governo, dela stirpe commun pensar bisogna a cancellar la publica vergogna.
178
Se l'obbrobrio e l'infamia in ciò non vale, vagliane omai la crudeltate e 'l sangue. Io ti darò quest'arco e questo strale che 'n Tessaglia ferì l'orribil angue. Poi quel rozzo berton, quel vil mortale per cui sospira innamorata e langue, io vo ch'apposti sì con la mia guida ch'oggi di propria man tu gliel'uccida. –
179
Con questi detti a vendicar quel torto il torto dio perfidamente induce. Poi là donde passar deve di corto il trasformato giovane il conduce e di tutto il successo il rende accorto il portator dela diurna luce. Gli disegna l'augel, gl'insegna l'arte del trattar l'arco e gliel consegna e parte.
180
Ma qual fatto è sì occulto il qual non sia al tuo divin saver palese e noto, virtù del tutto esploratrice e spia, intelligenza del secondo moto? Non consente Mercurio opra sì ria, ma vuol che quel pensier riesca a voto e, dal rischio mortal campando Adone, l'arte schernir del'assassin fellone.
181
Là 've soggiorna il pargoletto alato l'alato messaggier volando corse e per somma ventura addormentato solo in disparte entro 'l giardin lo scorse. Discese a terra e gli si mise a lato leggier così ch'Amor non sen'accorse. Quivi pian pian mentr'ei posava stanco un'aurea freccia gl'involò dal fianco.
182
è di tal qualità la freccia d'oro che dolcezza con seco e gloria porta, reca salute altrui, porge ristoro, il cor rallegra e l'anima conforta ed ha virtù di risvegliare in loro la fiamma ancor quand'è sopita o morta; e se 'l foco non è morto o sopito, riscalda almen l'amore intepidito.
183
Senz'altro indugio ei sene va con essa, dove il fabro crudel guarda la posta e con la sua sottil destrezza istessa gli scambia l'altra ch'ha nel suol deposta; né veduto è da lui quando s'appressa, ch'altrove intanto ogni sua cura ha posta, mentre la caccia insieme e la vendetta insidioso uccellatore aspetta.
184
Venia l'augel con ali basse il suolo quasi radendo e l'adocchiò Vulcano, che per troncargli inun la vita e 'l volo l'arco incurvò con la spietata mano, e 'n quel petto scoccò, ch'avezzo solo era ai colpi d'amor, colpo inumano. Ma la saetta d'or dala ferita sangue non trasse e non fu pur sentita.
185
L'insensibile strale aventuroso colselo sì, ma fè l'usato effetto, che per novo miracolo amoroso invece di dolor gli diè diletto e quell'amor, che forse era dubbioso, per sempre poi gli stabilì nel petto. Così chi tende altrui froda ed inganno è ministro talor del proprio danno.
186
Fuggito Adon lo scelerato oltraggio del feritore infuriato e pazzo, stanco, ma quasi a fin di suo viaggio giunt'era a vista del divin palazzo, quando trovò sotto un ombroso faggio due ninfe dela dea starsi a sollazzo ed avean quivi ai semplici usignuoli, che tra' rami venian, tesi i lacciuoli.
187
Tra quelle fila sottilmente inteste passò, ma nel passar diè nela rete e le donzelle a corrervi fur preste, forte di preda tal contente e liete. Belle serve d'Amor, se voi sapeste qual sia l'augel ch'imprigionato avete, perch'a fuggir da voi mai più non abbia, o come stretto il chiudereste in gabbia!
188
Corron liete ala preda e tosto ch'hanno tra' nodi indegni il semplicetto involto, perché ben di Ciprigna il piacer sanno stimano che gradire il devrà molto. Quindi al'ostel del Tatto elle sen vanno e 'l lascian per quegli orti andar disciolto, secure ben che da giardin sì bello, benché libero sia, non parte augello.
189
Giunto al nido primier de' suoi diletti su 'l ramoscel d'un platano si pose, e vide, ahi dura vista!, in que' boschetti sovra un tapeto di purpuree rose Venere e Marte che traean soletti in trastulli d'amor l'ore oziose, alternando tra lor vezzi furtivi, baci, motti, sorrisi, atti lascivi.
190
Pendean d'un verde mirto il brando crudo, la lorica, l'elmetto e l'altro arnese. Onde mentr'ei facea senz'armi ignudo ala bella nemica amiche offese, era il limpido acciar del terso scudo specchio lucente ale sue dolci imprese e con l'oggetto de' piacer presenti raddoppiava al'ardor faville ardenti.
191
Volava intorno a quel felice loco Zefiro, il bel cultor del vicin prato, e de' sospiri lor temprando il foco con la frescura del suo lieve fiato e con vago ondeggiar, quasi per gioco sventolando il cimier del'elmo aurato, facea concorde ale frondose piante l'armatura sonar vota e tremante.
192
Sopiti omai dela tenzon lasciva gli scherzi, le lusinghe e le carezze, giunti eran già trastulleggiando a riva del'amorose lor prime dolcezze. Già dormendo pian pian dolce languiva la reina immortal dele bellezze; né men che 'l forte dio la bella dea tutte le spoglie sue deposte avea.
193
Pargoleggianti esserciti d'Amori fan mille scherni al bellicoso dio; e qual guizza tra' rami e qual tra' fiori, qual fende l'aria e qual diguazza il rio; e perché carchi d'ire e di furori non cede intutto ancor gli occhi al'oblio, tal v'ha di lor che 'n lui tacito aventa un sonnachioso stral che l'addormenta.
194
Lasciasi tutto allor cader riverso il feroce motor del cerchio quinto e nel fondo di Lete apieno immerso sembra, vie più ch'addormentato, estinto. Di sangue molle e di sudore asperso, dal moto stanco e dal letargo vinto, rallentati, non sciolti, i nodi cari, soffia il sonno dal petto e dale nari.
195
O che riso, o che giubilo, o che festa la schiera allor de' pargoletti assale! Scherzando van di quella parte in questa a cento a cento e dibattendo l'ale. Un fugge, un torna, un salta ed un s'arresta, chi su le piume e chi sotto il guanciale. Le cortine apre l'un, l'altro s'asconde tra le coltre odorate e tra le fronde.
196
Tal, poiché lasso e disarmato il vide dopo mille posar mostri abbattuti, osò già d'assalire il grande Alcide turba importuna di pigmei minuti. Così su 'l lido ove Cariddi stride, soglion con tirsi e canne i fauni astuti del ciclopo pastor, mentre ch'ei dorme, misurar l'ossa immense e 'l ciglio informe.
197
Altri il divin guerrier con sferza molle fiede di rose e lievemente offende. Altri ala dea più baldanzoso e folle fura gli arnesi ed a trattargli intende. Altri la cuffia, altri il grembial le tolle, chi degli unguenti i bossoli le prende. Chi lo specchio ha per mano e chi 'l coturno, chi si pettina il crin col rastro eburno.
198
Un ven'ha poscia, il qual mentr'ella assonna, del suo cinto divino il fianco cinge e veste i membri dela ricca gonna e con l'auree maniglie il braccio stringe ed ogni gesto e qualità di donna rappresenta, compone, imita e finge, movendo su per quegli erbosi prati gravi al tenero piede i socchi aurati.
199
L'andatura donnesca e 'l portamento ne' passi suoi di contrafar presume, e 'ntanto con un morbido stromento di canute contesto e molli piume, ond'allettare ed agitare il vento Citerea ne' gran soli ha per costume, un altro dela plebe fanciullesca, l'aria scotendo, il volto gli rinfresca.
200
Un altro, al'armi ben forbite e belle dato di piglio del'eroe celeste, con vie più audace man gl'invola e svelle dal lucid'elmo le superbe creste; e 'l viso ventilandogli con quelle ne sgombra l'aure fervide e moleste, poi dala fronte gli rasciuga e terge le calde stille onde 'l sudor l'asperge.
201
Alcun altri divisi a groppo a groppo in varie legioni, in varie squadre, con l'armi dure e rigorose troppo muovon guerre tra lor vaghe e leggiadre. Chi cavalca la lancia e di galoppo la sprona incontro ala vezzosa madre, chi con un capro fa giostre e tornei, chi dela sua vittoria erge i trofei.
202
Parte piantan gli approcci e vanno a porre l'assedio a un tronco e fan monton del'asta, batton la breccia e son castello e torre la gran goletta e la corazza vasta. Chi combatte, chi corre e chi soccorre, altri fugge, altri fuga, altri contrasta, altri per l'ampie e spaziose strade con amari vagiti inciampa e cade.
203
Questi d'insegna invece il vel disciolto volteggia al'aura e quei l'afferra e straccia. Colui la testa impaurito e 'l volto nela celata per celarsi caccia e dentro vi riman tutto sepolto col busto, con la gola e con la faccia. Costui, volgendo al'aversario il tergo, corre a salvarsi entro 'l capace usbergo.
204
Ma ecco intanto il principe maggiore del'alato squadron che lor comanda. Comanda, dico, agli altri Amori Amore, agli altri Amori iquai gli fan ghirlanda, ch'ad onta sia del militare onore tosto legata ala purpurea banda la brava spada e 'n guisa tal s'adatti ch'a guisa di timon si tiri e tratti.
205
Senza dimora il grave ferro afferra sudando a prova il pueril drappello. Ciascuno in ciò s'essercita e da terra sollevarlo si sforza or questo or quello. Ma perché 'l peso è tal ch'apena in guerra colui che 'l tratta sol può sostenello, travaglian molto ed han tra lor divise le vicende e le cure in mille guise.
206
Chi curvo ed anelante andar si mira sotto il gravoso e faticoso incarco. Chi la gran mole assetta e chi la gira dov'è più piano e più spedito il varco. Chi con la man la spinge e chi la tira o con la benda o col cordon del'arco. L'orgoglioso fanciul guida la torma, tanto che con quell'asse un carro forma.
207
Pon quasi trionfal carro lucente del sovrano campion lo scudo in opra e per seggio sublime ed eminente alto v'acconcia il morion di sopra. Quivi s'asside Amor, quivi sedente trionfa del gran dio che l'armi adopra. Traendo intanto il van di loco in loco invece di destrier lo Scherzo e 'l Gioco.
208
Acclama, applaude con le voci e i gesti l'insana turba degli arcier seguaci; dicean per onta e per dispregio: – è questi l'invitto duce, il domator de' Traci? lo stupor de' mortali e de' celesti? il terror de' tremendi e degli audaci? Chi vuol saver, chi vuol veder s'è quegli deh! vengalo a mirar pria che si svegli.
209
Ecco i fasti e i trionfi illustri ed alti, ecco gli allori, ecco le palme e i fregi. Più non si vanti omai, più non s'essalti per tanti suoi sì gloriosi pregi. Quant'ebbe unqua vittorie in mille assalti soggiaccion tutte ai nostri fatti egregi. Scrivasi questa impresa in bianchi marmi: Vincan, vincan gli amori e cedan l'armi! –
210
A quel gridar dal sonno che l'aggrava Marte si scote e Citerea si desta e poiché gli occhi si forbisce e lava le sparse spoglie a rivestir s'appresta. Adon, che lo spettacolo mirava, non seppe contener la lingua mesta; né potendo sfogar la doglia in pianto, fu costretto addolcirla almen col canto.
211
– Amor (cantò) nel più felice stato m'alzò che mai godesse alma terrena e 'n sì nobile ardor mi fè beato, ché la gloria del mal temprò la pena. Or col ricordo del piacer passato dogliosi oggetti a risguardar mi mena là dove in quel bel sen che fu mio seggio altrui gradito e me tradito io veggio.
212
La dea che dal mar nacque e da cui nacque il crudo arcier che m'arde e mi saetta, si compiacque di me, né le dispiacque a mortale amator farsi soggetta. O più del mar volubil, che tra l'acque pur fermi scogli e stabili ricetta; ma 'n te nata dal mare, ohimé, s'asconde un cor più variabile del'onde.
213
Io, per serbar l'antico foco intatto, soffersi in ria prigion miserie tante, né perché lieve augello ancor sia fatto, fatto ancor lieve augel, son men costante. E tu sì tosto il giuramento e 'l patto ingrata! hai rotto e disleale amante? Ahi stolto è ben chi trovar più mai crede, poiché 'n ciel non si trova, in terra fede. –
214
Qui tacque e quel cantar, benché da Marte fusse o non ben udito o mal inteso, l'indusse pure a sospettare in parte del suo rivale e ne restò sospeso; e temendo d'Amor l'inganno e l'arte e bramando d'averlo o morto o preso, a Mercurio il mostrò, che quivi giunto con Amor ragionando era in quel punto.
215
Il peregrino augel subito allora fugge dal vicin ramo e si dilegua e 'l messaggio divin non fa dimora pur come sol per ritenerlo il segua. Ma poiché son di quel boschetto fora del fugace il seguace il volo adegua e là dove più folta è la corona de' mirti ombrosi il ferma e gli ragiona:
216
– O meschinel che per quest'aere aperto su le penne non tue ramingo vai, di tanto mal senza ragion sofferto fuorché testesso ad incolpar non hai, ch'essendo pur del'altrui fraude certo, dar volesti materia ai propri guai. Non però desperar, poich'a ciascuno fu l'aiuto del ciel sempre oportuno.
217
Già dela stella a te cruda e nemica cessan gl'influssi omai maligni e tristi. Ma pria che 'nun con la figura antica la tua perduta ancor gemma racquisti, durar ti converrà doppia fatica, tornando al loco onde primier partisti e lavarti ben ben nela fontana possente a riformar la forma umana.
218
Del'acqua ove la fata entra a bagnarsi quando depon la serpentina spoglia, poich'avrai sette volte i membri sparsi fia che la larva magica si scioglia. Tornato al'esser tuo, vanne ove starsi in guardia troverai di ricca soglia mostro il più stravagante, il più diverso che si scorgesse mai nel'universo.
219
Ha fattezze di sfinge e tien confuse quattr'orecchi, quattr'occhi, altrettant'ali. Due luci ha sempre aperte, altre due chiuse e le piume e l'orecchie ancor son tali. Lunghe l'orecchie a' bei discorsi ottuse non cedono d'Arcadia agli animali. La sua faccia si muta e si trasforma, quasi camaleonte, in ogni forma.
220
Vario sempre il color lascia e ripiglia né mai certa sembianza in sé ritenne. Come veggiam la cresta e la bargiglia del gallo altier che d'India in prima venne, bianca a un punto apparir, verde e vermiglia qualor gonfio d'orgoglio apre le penne, così sua qualità cangia sovente secondo quelche mira e quelche sente.
221
La vesta ha parte d'or, parte di squarci divisata a quartieri e fatta a spicchi, quindi di cenci logorati e marci, quinci di drappi preziosi e ricchi. Non aspetti chi va per contrastarci che nele vene il dente ei gli conficchi, però che morso ha di mignatta e d'angue che non straccia la carne e sugge il sangue.
222
Tagliente, aguzza ed uncinata ha l'ugna e diritto il piè manco e zoppo il destro. Ma nel corso però non è chi 'l giugna ed è d'ogni arte perfida maestro. Son l'armi sue con cui combatte e pugna in mano un raffio, a cintola un capestro. Tira con l'un le genti e le soggioga, con l'altro poi le strangola e l'affoga.
223
Non si cura d'amor questi ch'io dico, altro che l'util proprio ama di rado; e ne' guadagni suoi sempre mendico sta sempre intento a custodir quel guado. Sol per disegno applaude anco al nemico, né conosce amistà né parentado. L'amicizia, le leggi e le promesse tutte son rotte alfin dal'Interesse.
224
Interesse s'appella il mostro avaro dele ricchezze e del tesor custode, del tesoro ove chiuso è l'anel raro, non risguarda virtù, ragion non ode. Tien ei le chiavi del'albergo caro né vale ad ingannarlo astuzia o frode. E perché vegghia ognor con occhi attenti vuolsi modo trovar che l'addormenti.
225
Per indurlo a dormir del'armonia l'arte, ond'Argo delusi, in uso porre vanità fora inutile e follia, ch'ogni cosa gentile odia ed aborre, e di qual pregio il suono e 'l canto sia non conosce, non cura e non discorre, come colui che stupido ed inetto d'asino ha inun l'udito e l'intelletto.
226
A far però ch'ebro del tutto e cieco di sonno profondissimo trabocchi basterà che 'l baston ch'io porto meco un tratto sol ben leggiermente il tocchi. Farò né più né men nel cavo speco al serpente incantato appannar gli occhi, accioché fuor di que' dubbiosi passi senza intoppo securo andar ti lassi;
227
e mia cura sarà far poi dormire le guardiane ancor degli aurei frutti, perché non ti difendano al'uscire la porta che vietar sogliono a tutti. Giunto al'empia magion, mille apparire aspetti vi vedrai squallidi e brutti. Vedrai la donna rea con altra faccia a che sciagura misera soggiaccia.
228
Entra allor nel'erario e quindi presto prendi il gioiel che dela dea fu dono, ma null'altro toccar di tutto il resto bench'apparenza in vista abbia di buono. Quante cose v'ha dentro, io ti protesto, contagiose e sfortunate sono e ciascuna con seco avien che porte augurio tristo di ruina o morte.
229
Uscito alfin dela gran pianta, averti, poich'una noce d'or colta n'avrai, fa ch'appo te ne' tuoi viaggi incerti la rechi ognor senza lasciarla mai. Perché valloni sterili e deserti passar convienti inabitati assai, là dove, stanco da sì lunghi errori, penuria avrai di cibi e di licori.
230
Il guscio aprendo allor del'aurea noce, vedrai novo miracolo inudito. Vedrai repente comparir veloce sovra mensa real lauto convito. Da ministri incorporei e senza voce, senza saver da cui, sarai servito. Né mancherà dintorno in copia grande apparato di vini e di vivande. –
231
Con questi ultimi detti il corrier divo de' numi eterni il suo parlar conchiuse e là tornato ove lasciò Gradivo, la bugia colorì d'argute scuse. Ma poi con Citerea cheto e furtivo lungamente in disparte ei si diffuse e le narrò dopo la ria prigione il caso miserabile d'Adone.
232
Instrutto Adon dal consiglier divino per le due volte già varcate vie non tardò punto a prendere il camino verso le case scelerate e rie. Era quand'egli entrò nel bel giardino tra 'l fin l'alba e 'l cominciar del die. Già s'apriva del ciel l'occhio diurno ed era apunto il dì sacro a Saturno.
233
Ode intanto sonar tutto il palagio di lamenti che van fino ale stelle, quasi infelice ed orrido presagio di dolorose e tragiche novelle. Ed ecco vede poi lo stuol malvagio sbigottir, scolorir dele donzelle e quasi di cadavere ogni guancia di vermiglia tornar livida e rancia.
234
Vedele orribilmente ad una ad una vestir di sozza squama il corpo vago e d'alcun verme putrido ciascuna prender difforme e spaventosa imago. Vede tra lor con non miglior fortuna la fata istessa trasformarsi in drago e 'n fogge formidabili e lugubri tutte alfin divenir bisce e colubri.
235
Mira Adone e stupisce e su per l'erba l'immondo seno a strascinar le lassa e poich'umiliar quella superba in tal guisa ha veduta, al fonte passa; e perché l'alto aviso in mente serba per purgarsi nel'acque i vanni abbassa. Sette volte s'attuffa e si rimonda e ciò ch'egli ha d'augel lascia nel'onda.
236
Ritolto dunque apien l'essere antiquo volge al tesor di Falsirena il passo e ritrova su l'uscio il mostro iniquo dormir sì fortemente a capo basso che par mirato col suo sguardo obliquo l'abbia Medusa e convertito in sasso, onde pria che si rompa il sonno grave, non senza alcun timor, gli toe la chiave.
237
Quand'egli ha ben quelle sembianze scorte, quando il crudo rampin gli mira a piedi e quando il tocca non ha il cor sì forte che non gli tremi dal'interne sedi. Pur, la chiave sciogliendo, apre le porte dela conserva de' più ricchi arredi. Era grande la stanza oltre misura e di gemme avea 'l suolo e d'or le mura.
238
Di lampe in vece e di doppieri accesi sfavillanti piropi ardono intorno, ch'a mezza notte a l'auree travi appesi fanno l'ufficio del rettor del giorno. Dodici segni ed altrettanti mesi rendono il loco illustremente adorno, statue scolpite di finissim'oro che per ordine stan ne' nicchi loro.
239
Havvi ancora i pianeti e gli elementi, tre provincie del mondo e quattro etati, rilievi pur d'artefici eccellenti, del metallo medesimo intagliati. Parte poi di bisanti e di talenti, di medaglie e di stampe havvi dai lati, parte di zolle cariche e di masse ampi forzieri e ben capaci casse.
240
Tra forziero e forzier v'ha tavolini d'estranie pietre e gabbinetti molti che di vezzi di perle e di rubini tengon gran mucchi e cumuli raccolti. Altri lapilli generosi e fini in più groppi vi son legati e sciolti. Scettri e corone v'ha, branchigli e rose e catene e cinture ed altre cose.
241
Vi conobbe tra mille il bel diamante Adon che già la maga empia gli tolse. O dio con quanti baci, o dio con quante affettuose lagrime il raccolse! Ma quando poi col fido specchio avante gli occhi al'amata imagine rivolse, traboccò di letizia in tanto eccesso che nel'imaginar resta inespresso.
242
Sorge in mezzo ala sala aureo colosso maggior degli altri assai, tutto d'un pezzo, d'un pezzo sol, ma sì massiccio e grosso che non è fabro a fabricarne avezzo. Di Fortuna ha l'effigie e tiene addosso tante gemme e nel sen che non han prezzo. Tal'è la rota ancor, tal'è la palla, tale il delfin che la sostiene in spalla.
243
A piè di questa un letturin d'argento riccamente legato un libro regge e vergata ogni linea ed ogni accento in idioma arabico si legge. Delo stranio volume al'ornamento ornamento non è che si paregge. La covertura in ogni parte è tutta di fin topazio e lucido costrutta.
244
Son le fibbie ala spoglia ancor simili, di zaffiri composte e di giacinti. Son d'or battuto in lamine sottili i fogli in bei caratteri distinti. Ha di fregi ogni foglio e di profili d'azzurro e minio i margini dipinti e figurata di grottesche antiche le maiuscole tutte e le rubriche.
245
Quanti ha tesori il mondo a parte a parte, ciò che la terra ha in sen di prezioso, opra sia di natura o lavor d'arte, in miniere diffuso o in arche ascoso, tutto scritto e notato in quelle carte mostra l'indice pieno e copioso. I propri siti insegna e i lor custodi e per trovargli i contrasegni e i modi.
246
Gira Adon gli occhi e 'n questa parte e 'n quella, scorge diverse e 'nsu diverse basi ricche reliquie e 'n rotolo o in tabella dele memorie lor descritti i casi. V'ha dela pioggia in cui per Danae bella scese Giove dal ciel colmi gran vasi. E verghe v'ha di traboccante pondo che dal tatto di Mida ebbero il biondo.
247
V'ha laurea pelle che d'aver si vanta rapita a Colco il nobile Argonauta. E v'ha le poma del'esperia pianta ond'Alcide portò preda sì lauta. Le palle v'ha che vinsero Atalanta pur troppo il corso ad arrestarvi incauta. Ed havvi il ramo che sterpar dal piano fè la vecchia di Cuma al pio Troiano.
248
Vide fra l'altre pompe in un pilastro pendere un fascio di selvaggi arnesi. V'ha la faretra con sottile incastro di perle riccamata e di turchesi. V'ha gli strali per man d'egregio mastro di fin or lavorati insieme appesi. N'avria, credo, non ch'altri invidia Apollo, né so se tale Amor la porta al collo.
249
L'arco non men dela faretra adorno d'oro e seta ha la corda attorta insieme, di nervo il busto e di forbito corno di questo capo e quel le punte estreme. Brama Adon quelle spoglie aver intorno, ma di Mercurio il duro annunzio teme. Vede che dela scritta esplicatrice "armi di Meleagro" il breve dice.
250
Di tutto ciò ch'ivi raccolto ei vede nessuna punto avidità l'invoglia, sì che di tante e sì pregiate prede pur una, ancorché minima ne toglia. Questa sola desia, perché la crede per lui ben propria e necessaria spoglia; ed essendo senz'arco e senza strali aver non spera altronde armi mai tali.
251
Adon che fai? deh qual follia ti tira armi a toccar d'infernal tosco infette? Ahi trascurato, ahi forsennato, mira chi quell'arco adoprò, quelle saette. V'è di Diana ancor nascosta l'ira, son fatalmente infauste e maledette. Da che la fera sua fu da lor morta infelici l'ha fatte a chi le porta.
252
Egli ch'a ciò non pensa o ciò non cura, la faretra dispicca e prende l'arco e di questa e di quel tiensi a ventura render l'omero cinto e 'l fianco carco. Poi per la via più breve e più secura del tronco d'or si riconduce al varco, né trova a corre il frutto impaccio o noia col favor di Mercurio e dela gioia.
253
Tutto quel giorno che fra gli altri sette è di riposo ed ultimo si conta, convertita in dragon, la maga stette poco possente a vendicar quell'onta. Nacquer le fate a tal destin soggette che, da che sorge il sol finché tramonta e dal porre al levar, la brutta scorza ogni settimo dì prendono a forza.
254
Or qual doglia la punse e la trafisse poiché spuntar del'altra luce i raggi? Quanto allor si turbò? quanto s'afflisse quando s'accorse de' suoi novi oltraggi? – Ma vanne ingrato pur, vattene (disse) che la vendetta mia teco ne traggi. – Tacque ed a sé chiamò con fiera voce dele sue guardie un caporal feroce.
255
Orgoglio ha nome, altri l'appella Orgonte, dela Superbia e del Furore è figlio. In bocca sempre ha le minacce e l'onte, traverso il guardo e nubiloso il ciglio. Due gran corna di toro ha su la fronte, d'orso la branca e di leon l'artiglio. Ha zanne di mastino, occhi di drago: figurar non si può più sozza imago.
256
Grossa e rauca la voce e la statura, emula dele torri, ha di gigante e del membruto corpo ala misura lo smisurato spirto è ben sembiante. Pietà, ragion, religion non cura, perverso, inessorabile, arrogante, bruno il viso, irto il crine, il pelo irsuto, temerario così come temuto.
257
Poich'a costui narrate ha Falsirena l'ingiurie sue con pianti e con querele, udita ei la cagion di tanta pena sorride d'un sorriso aspro e crudele e nela faccia e nela bocca piena d'amaro assenzio gli verdeggia il fiele; e 'l parlar ch'egli face ala donzella è muggito e ruggito e non favella.
258
– Mandami tra le sfingi e tra i pitoni, v'andrò (dicea) senza mestier d'aiuto. Mandami tra i centauri e i lestrigoni, dov'ogni altro valor resti perduto. Pommi pur tra i Procusti e i Gerioni, tutto ardisco per te, nulla rifiuto. Darti in pezzi smembrato un vil fanciullo fora di questa man scherzo e trastullo.
259
Impommi cose pur ch'altri non possa, dimmi ch'io domi il domator d'Anteo, dì che d'un calcio sol, d'una percossa Polifemo t'abbatta e Briareo. Vuoi ch'io ponga sossovra Olimpo ed Ossa? strozzi Efialte e strangoli Tifeo? Vuoi che sbrani ad un cenno e che divori del giardino di Colco i draghi e i tori?
260
Ch'io scacci di laggiù l'empie sorelle? ch'io snidi di lassù la luna e 'l sole? I denti svellerò dale mascelle al rabbioso mastin dale tre gole. Catenato trarrò giù dale stelle lo dio ch'essere invitto in guerra suole. Facil mi fia, se punto ira mi move, tor l'inferno a Plutone, il cielo a Giove.
261
Porterò sovra il tergo e su la fronte soma maggior d'Atlante e maggior pondo. Del Nil sol con un sorso il vasto fonte asciugherò, quand'ha più cupo il fondo; se venisse a cader novo Fetonte, se minacciasse pur ruina il mondo, meglio di chi l'ha fatto e stabilito a forza il sosterrei con un sol dito.
262
I poli sgangherar del'asse eterno, purché 'n grado ti sia, mi parrà poco. Il gran globo terren vo con un perno a guisa di paleo librar per gioco. Il fulmine passar del re superno al corso e di vigor vincere il foco e stracciar a due man l'istesso cielo né più né men come se fusse un velo. –
263
Le bravure del'un l'altra ascoltando si divora di stizza e di tormento. – Tempo (dice) non è d'andar gittando l'ore, o mio fido, e le parole al vento. Malagevoli imprese io non dimando, noto m'è troppo il tuo sommo ardimento. So le tue forze, il tuo valor ben veggio, ma molto men di quanto hai detto io cheggio.
264
Prendimi sol quel fuggitivo ingrato. perfido, disleale e traditore. Prendilo e trallo vivo a me legato, ch'io sfoghi a senno mio l'ira e 'l dolore. Vivo dammi il crudel che m'ha rubato...– disse "il tesor" ma volse dire "il core". – Oltre via, farò pur (soggiunse Orgoglio) quelche vuoi, quelche deggio e quelche soglio. –
265
Non molto sta dopo tai detti a bada e s'accinge a partir l'anima altera. Prende un scelto drappel di sua masnada, gente simile a lui malvagia e fera. Seguendo il van per non battuta strada il Disprezzo e 'l Dispetto in una schiera. Lo Scherno è seco e seco ha per viaggio l'Insolenza, il Terror, l'Onta e l'Oltraggio.
266
Trascorre i campi e si raggira ed erra, spiando del garzon la traccia invano. Porta ovunque egli va tempesta e guerra, fa tremar d'ognintorno il monte e 'l piano. L'elci robuste e i grossi faggi atterra e pela i boschi con la sconcia mano. Col soffio sol par ch'ammorzar presuma la gran lampa del ciel che 'l mondo alluma.
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