|
|
|
ilmarino testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie in prosa e in versi, operaomnia #
CANTO QUINTO
La tragedia
ALLEGORIA
Per Mercurio, che mettendo Adone in parole gli persuade con diversi essempi a ben amar Venere, si dimostra la forza d'una lingua efficace e come l'essortazioni de' perversi ruffiani sogliono facilmente corrompere un pensier giovanile. Ne' favolosi avvenimenti di que' giovani da esso Mercurio raccontati, si dà per lo più ad intendere la leggerezza ed incostanza puerile. In Narciso è disegnata la vanità degli uomini morbidi e deliziosi iquali, non ad altro intesi che a compiacersi di sé medesimi e disprezzatori di Eco, ch'è figura della immortalità de' nomi, alla fine si trasformano in fiori, cioè a dire che se ne muoiono miseramente senza alcun pregio, poiché niuna cosa più di essi fiori è caduca e corrottibile. In Ganimede fatto coppier di Giove, vien compreso il segno d'aquario, ilqual con larghissime e copiosissime piogge dà da bere a tutto il mondo. Per Ciparisso mutato in cipresso, siamo avertiti a non porre con ismoderamento la nostra affezzione alle cose mortali, accioché poi mancandoci, non abbiamo a menar la vita sempre in lagrime ed in dolori. Ila, come accenna l'importanza della voce greca, non vuol dir altro che selva ed è amato da Ercole, percioché Ercole come cacciatore di mostri, era solito di frequentar le foreste. Atide, infuriato prima e poi divenuto pino per opera di Cibele, ci discopre quanto possa la rabbia della gelosia nelle donne attempate, quando con isproporzionato maritaggio si ritrovano a giovane sposo congiunte. La rappresentazione d'Atteone ci dà ammaestramento quanto sia dannosa cosa il volere irreverentemente e con soverchia curiosità conoscere de' secreti divini più di quelche si conviene e quanto pericolo corra la gioventù di essere divorata dalle proprie passioni, seguitando gli appetiti ferini.
ARGOMENTO
Entra il garzon per dilettosa strada nel bel palagio infra delizie nove. Seco divisa il messaggier di Giove, poi con scene festive il tiene a bada.
1
L'umana lingua è quasi fren che regge dela ragion precipitosa il morso. Timon ch'è dato a regolar con legge dela nave del'alma il dubbio corso. Chiave ch'apre i pensier, man che corregge dela mente gli errori e del discorso. Penna e pennello, che con note vive e con vivi color dipinge e scrive.
2
Istromento sonoro, or grati, or gravi, or di latte, or di mel sparge torrenti. Son del suo dire inun fieri e soavi tuoni le voci e fulmini gli accenti. Accoppia in sé del'api e gli aghi e i favi, atti a ferire, a raddolcir possenti; divin suggel che, mentr'esprime i detti, imprime altrui negli animi i concetti.
3
Ma come spada che difende o fere s'avien che bene o male oprata sia, secondo il divers'uso, in più maniere qualità cangia e divien buona o ria e, se dal dritto suo fuor del devere in malvagio sermon torta travia, trafige, uccide e, del mordace dente, benché tenera e molle, è più pungente.
4
Seben però, qualor saetta o tocca, stampa sempre in altrui piaghe mortali, non fa colpo maggior che quando scocca in petto giovenil melati strali. Versa catene d'or faconda bocca che, molcendo e traendo i sensi frali, tesson legame al cor dolce e tenace ch'imprigiona e lusinga e noce e piace.
5
Un mezzano eloquente, un scaltro messo, paraninfo di cori innamorati, che viene e torna e patteggiando spesso dele compre d'Amor tratta i mercati, con le parole sue fa quell'istesso ne' rozzi petti e ne' desir gelati che suol ne' ferri far la cote alpina, che non ha taglio e le coltella affina.
6
O vi fulmini il ciel, v'assorba Dite, infernali Imenei, sozzi oratori, corrieri infami, al'anime tradite di scelerati annunzi ambasciadori, che con ragioni essortatrici ardite di stimulare i semplicetti cori, corrompendo i pensier con dolci inganni! Qual ufficio più vil fa maggior danni?
7
Qual meraviglia, se de' sommi eroi l'interprete immortal, l'astuto araldo, possente ad espugnar co' detti suoi ogni voler più pertinace e saldo, su'l fiore, o bell'Adon, degli anni tuoi il tuo tenero cor rende sì caldo? Virtù di quel ministro, ilqual per prova nela casa d'Amor sempre si trova.
8
Somiglia Adone attonito villano uso in selvaggio e poverel ricetto, se talora a mirar vien di lontano pompa real di cittadino tetto. Somiglia il domator del'oceano quando d'alto stupore ingombro il petto, vide primiero in region remote meraviglie novelle e genti ignote.
9
Volge a tergo lo sguardo e mira e spia se calle v'ha per rinvenir l'uscita. Ma la porta superba, ond'entrò pria, con sue tante ricchezze è già sparita. Né sa guado veder, né trovar via per indietro tornar, che sia spedita; e quasi verme di bei stami cinto va tessendo a sestesso il labirinto.
10
Tosto ch'egli colà pose le piante, ben d'Amor prigioniero esser s'accorse, ma fra delizie sì soavi e tante dala cara catena il piè non torse; anzi spontaneo e volontario amante al ceppo il piede, al giogo il collo porse; e poich'ha di tal carcere ventura, servaggio apprezza e libertà non cura.
11
Non manca quivi a corteggiarlo accinta di festevoli ninfe accorta schiera, né con piuma qual d'oro e qual dipinta vago drappel di gioventute arciera, ch'al bel fanciul, da cui fu presa e vinta la bella dea che 'n quell'albergo impera, stanno in guisa d'ancelle e di sergenti, diversi uffici a ministrare intenti.
12
Chi d'ambrosia gl'impingua il crin sottile, chi di rosa l'implica e chi di persa, chi di pomposo e barbaro monile la bella gola e candida attraversa, altri al'orecchie di lavor simile gemma gli appende folgorante e tersa; talché tutto si vede intorno intorno di molli arnesi e feminili adorno.
13
Incantato da' vezzi e tutto inteso a cose Adon sì disusate e nove, parte d'alto stupor che l'ha sorpreso vinto, bocca non apre, occhio non move, parte sovra pensier, seco sospeso volge suo stato e con cui siasi e dove; e sparso intanto d'un gentil vermiglio basso tien per vergogna a terra il ciglio.
14
Qui presente d'Atlante era il nipote, perché non pur la sua natia Cillene lascia talor, ma dal'eterne rote per scherzar con Amor, spesso ne viene. Questi al garzon s'accosta e sì lo scote ch'alzar gli fa le luci alme e serene. Favoleggiando poi dolce il consiglia e con modi piacevoli il ripiglia:
15
– O damigel, che sott'umano velo di consorzio divin sei fatto degno, dela tua sorte invidiata in cielo ecco ch'io teco a rallegrar mi vegno. Così 'l tuo foco mai non senta gelo, come a curar non hai del patrio regno, quando di sé lo scettro e del suo stato la reina de' regi in man t'ha dato.
16
Ma perché muto veggioti e pensoso, sia pensier, sia rispetto o sia cordoglio; consolar mesto, assecurar dubbioso, consigliar sconsigliato oggi ti voglio. Del bel, per cui ne vai forse fastoso, ah non ti faccia insuperbire orgoglio, però ch'è fior caduco e, se nol sai, fugge e fuggito poi non torna mai.
17
E ti vo' raccontar, se non t'aggrava, ciò ch'adivenne al misero Narciso. Narciso era un fanciul ch'innamorava tutte le belle ninfe di Cefiso. La più bella di lor, che s'appellava Eco per nome, ardea del suo bel viso ed adorando quel divin sembiante parea fatta idolatra e non amante.
18
Era un tempo costei ninfa faconda e note sovr'ogni altra ebbe eloquenti, ma da Giunon crucciosa ed iraconda le fur lasciati sol gli ultimi accenti. Pur, seben la sua pena aspra e profonda distinguer non sapean tronchi lamenti, supplia, pace chiedendo ai gran martiri, or con sguardi amorosi, or con sospiri.
19
Ma l'ingrato garzon chiuse le porte tien di pietate al suo mortal dolore. Porta negli occhi e nele man la morte, dele fere nemico e più d'amore. Arma, crudo non men che bello e forte, d'asprezza il volto e di fierezza il core. Di sé s'appaga e lascia in dubbio altrui se grazia o ferità prevaglia in lui.
20
"Amor (dicean le verginelle amanti) o da questo sord'aspe Amor schernito, dov'è l'arco e la face onde ti vanti? perché non ne rimane arso e ferito? Deh fa signor che con sospiri e pianti ami invan non amato e non gradito! Come più tant'orgoglio omai sopporti? vendica i propri scorni e gli altrui torti."
21
A quel caldo pregar l'orecchie porse l'arcier contro il cui stral schermo val poco e 'l cacciator superbo un giorno scorse tutto soletto in solitario loco. Stanco egli di seguir cinghiali ed orse cerca riparo dal celeste foco; tace ogni augello al gran calor ch'essala, salvo la roca e stridula cicala.
22
Tra verdi colli in guisa di teatro siede rustica valle e boschereccia; falce non osa qui, non osa aratro di franger gleba o di tagliar corteccia; fonticel di bell'ombre algente ed atro inghirlandato di fiorita treccia qui dal sol si difende e sì traluce ch'al fondo cristallin l'occhio conduce.
23
Su la sponda letal di questo fonte che i circostanti fior di perle asperge e fa limpido specchio al cavo monte che lo copre dal sol quando più s'erge, appoggia il petto e l'affannata fronte, le mani attuffa e l'arse labra immerge. E quivi Amor, mentr'egli a ber s'inchina, vuol ch'impari a schernir virtù divina.
24
Ferma nele bell'onde il guardo intento e la propria sembianza entro vi vede; sente di strano amor novo tormento per lei che finta imagine non crede; abbraccia l'ombra nel fugace argento e sospira e desia ciò che possiede; quelche cercando va porta in sestesso, miser, né può trovar quelch'ha da presso.
25
Corre per refrigerio al'onda fresca, ma maggior quindi al cor sete gli sorge; ivi sveglia la fiamma, accende l'esca, dove a temprar l'arsura il piè lo scorge; arde e perché l'ardor vie più s'accresca la sua stessa beltà forza gli porge e, nel'incendio d'una fredda stampa, mentre il viso si bagna il petto avampa.
26
La contempla e saluta e tragge ahi folle! da mentito sembiante affanno vero. Egli amante, egli amato, or gela, or bolle, fatto è strale e bersaglio, arco ed arciero. Invidia a quell'umor liquido e molle la forma vaga e 'l simulacro altero e, geloso del bene ond'egli è privo, suo rival su la riva appella il rivo.
27
Mancando alfin lo spirto al'infelice, troppo a sestesso di piacer gli spiacque. Depose a piè del'onda ingannatrice la vita e, morto in carne, in fior rinacque. L'onda che già l'uccise, or gli è nutrice, perch'ogni suo vigor prende dal'acque. Tal fu il destin del vaneggiante e vago vagheggiator dela sua vana imago.
28
E così fece il ciel del grave oltraggio dela sprezzata ninfa alta vendetta. Ma tu, credo ben io, se sarai saggio, aborrir non vorrai quelche diletta e, sgombro il sen d'ogni rigor selvaggio, godrai l'età fiorita e giovinetta, idolo d'una dea, dal cui bel viso impara ad esser bello il paradiso;
29
di quella dea per cui strugger si sente lo dio del foco in maggior foco il petto e da martel più duro e più possente batter il cor d'amore e di sospetto, quella che i danni del'offesa gente vendica sol col mansueto aspetto; ché, sel folgore suo percote altrui, un sol guardo di lei trafige lui;
30
di quella dea che può col seno ignudo vincer l'invitto dio d'armi guernito, loqual non può sì forte aver lo scudo che non ne resti il feritor ferito, né di sì salde tempre il ferro crudo che tempri il mal da que' begli occhi uscito; quella che può bear l'alme beate beltà del cielo e ciel d'ogni beltate.
31
Giovane il mondo in altra età qual ebbe amato mai da deitate alcuna, e qual cotanto al cielo in grazia crebbe, che possa pareggiar la tua fortuna? Non quegli a te paragonar si debbe ch'accese il cor dela gelata Luna, non l'altro che 'nsu 'l bel carro fiorito fu dala bionda Aurora in ciel rapito.
32
Mille di mille dee, di mille dei, che quaggiù di lassù spiegaro il volo, amori annoverar qui ti potrei, ma lascio gli altri e tene sceglio un solo. Oso di dir che più felice sei di quelche piacque al gran rettor del polo. Non so se ti sia nota, o forse oscura, del troiano donzel l'alta ventura.
33
Dal sovrano balcon rivolto avea il motor dele stelle a terra il ciglio, quando mirò giù nela valle Idea del re di Frigia il giovinetto figlio. Mirollo e n'arse. Amor che l'accendea, l'armò di curvo rostro e curvo artiglio, gli prestò l'ali e gli destò vaghezza di rapir la veduta alta bellezza.
34
La maestà d'un sì sublime amante bramoso d'involar corpo sì bello, dela ministra sua prese sembiante, ché non degnò cangiarsi in altro augello, peroché tutto il popolo volante più magnanimo alcun non n'ha di quello, degno, daché portò tanta beltate, d'aver di stelle in ciel l'ali gemmate.
35
Bello era e non ancor gli uscia su'l mento l'ombra ch'aduggia il fior de' più begli anni. Iva tendendo a rozze prede intento ai cervi erranti insidiosi inganni. Ed ecco il predator che 'n un momento, falcate l'unghie e dilatati i vanni, in alto il trasse e per lo ciel sostenne l'amato incarco insu le tese penne.
36
Mira da lunge stupido e deluso lo stuol de' servi il vago augel rapace. Seguon latrando e risguardando insuso i cani la volante ombra fugace. Il volo oblia d'alto piacer confuso, Giove, e di gioia e di desir si sface, gli occhi fiso volgendo e le parole, aquila fortunata, al suo bel sole:
37
"Fanciul (dicea) che piagni? a che paventi cangiar col cielo, ah semplicetto, i boschi? con l'aure sfere e con le stelle ardenti le tane alpestri e gli antri ombrosi e foschi? e con gli dei benigni ed innocenti le fere armate sol d'ire e di toschi? Fatto, mercé di lui ch'el tutto move, di rozzo cacciator coppier di Giove?
38
Son Giove istesso. Amor m'ha giunto a tale: non prestar fede ale mentite piume. Aquila fatto son; ma che mi vale, s'aquila ancor m'abbaglio a tanto lume? Io quel, quell'io che col fulmineo strale tonar sovra i giganti ho per costume, sì son pungenti i folgori che scocchi, saettato son già da' tuoi begli occhi.
39
Qual pro ti fia per balze e per caverne seguir de' mostri orribili la traccia? Vienne vien meco ale delizie eterne, maggior preda fia questa e miglior caccia. E s'avien che colà nele superne piagge i bei membri essercitar ti piaccia, trarrai per le stellate ampie foreste dietro al'orse del polo il can celeste.
40
Lascia omai più di ricordar, rivolto ale selve, agli armenti, Ida né Troia. Sei celeste e felice; avrai raccolto tra gli eterni conviti eterna gioia. E nel'aspra stagion, quand'austro sciolto l'aria, la terra e 'l mar turba ed annoia, visitata dal sol, lucida e bella scintillerà la tua feconda stella."
41
Così gli parla e 'ntanto al sommo regno dela gente immortal patria serena, non però senza scorno e senza sdegno dela gelosa dea, lo scorge e mena, dove del nobil grado il rende degno, ché sempre in ogni prandio, in ogni cena, a mensa in cavo e lucido diamante porga il nettare eterno al gran tonante.
42
Ebe e Vulcan, che poco dianzi quivi dela gran tazza il ministero avieno, già rifiutati e del'ufficio privi cedono al novo aventurier terreno. Ei l'ama sì ch'innanzi a dive e divi, quando il sacro teatro è tutto pieno, ancor presente la ritrosa moglie, da Ganimede suo mai non si scioglie.
43
Non gli reca il garzon giamai da bere che pria nol baci il re che 'n ciel comanda e trae da quel baciar maggior piacere che dala sua dolcissima bevanda. Talvolta a studio e senza sete avere, per ribaciarlo sol, da ber dimanda, poi gli urta il braccio o in qualche cosa intoppa, spande il licore o fa cader la coppa.
44
Quando torna a portar l'amato paggio il calice d'umor stillante e greve, rivolti in prima i cupid'occhi al raggio de' bei lumi ridenti, egli il riceve e, col gusto leggier fattone un saggio, il porge a lui, ma mentr'ei poscia il beve, di man gliel toglie e le reliquie estreme cerca nel vaso e beve e bacia insieme.
45
Ma che? Tu sovra questo e sovra quanti più pregiati ne furo unqua tra noi darti ben a ragion titoli e vanti d'aventuroso e fortunato puoi, poiché 'l più bel de' sette lumi erranti hai potuto invaghir degli occhi tuoi e por testesso in signoria di quella ch'influisce ogni grazia amica stella.
46
E però ti consiglio e ti ricordo che di tanto favor ringrazi il fato. Non esser al tuo ben cieco né sordo, sappi gioir di sì felice stato, né cagion lieve o van desire ingordo partir ti faccia mai dal fianco amato; perché cose s'incontrano sovente onde, quando non vale, altri si pente.
47
La fanciullesca età tenera e molle è quasi incauta e semplice fanciulla, lo cui desir precipitoso e folle corre a ciò che l'alletta e la trastulla. Or piange or ride e mentr'ondeggia e bolle suole immenso dolor tragger di nulla e procacciar non senza gravi affanni da leggieri accidenti eterni danni.
48
Troppo talvolta a vani oggetti intenta quelche rileva più, sprezza ed oblia, e così pargoleggia e si lamenta s'avien che perda poi ciò che desia. Un'essempio n'avrai, se ti rammenta degno ch'a mente ognor certo ti sia, per cui l'alma anzi tempo uscì divisa d'una spoglia leggiadra, odi in che guisa.
49
Vezzoso cervo si nutriva in Cea, di cui più bel non fu daino né damma, sacro ala casta e boschereccia dea, più vivace e leggier che vento o fiamma. Quando apena lasciato il nido avea, d'una capra poppò l'ispida mamma, onde conforme al'alimento ch'ebbe qualità prese e mansueto crebbe.
50
E canuto qual cigno e 'l pelo ha bianco più che latte rappreso o neve alpina; sol di purpuree macchie il petto e 'l fianco sparso a guisa di rose insu la brina. Con le ninfe conversa e talor anco in udir chiamar Cinzia egli s'inchina, pur come a reverir nome sì degno umano spirto il mova, umano ingegno.
51
Tra fauni e driadi il dì spazia e soggiorna in aperta campagna o in chiuso ovile, che per fregiargli le ramose corna van dele pompe sue spogliando aprile. D'oro l'orecchie e d'or la fronte adorna, gli circonda la gola aureo monile ch'un tal breve contien: "ninfe e pastori, di Diana son io, ciascun m'onori".
52
Le ninfe fontaniere e le montane nela stagion ch'al cervo il corno casca, onde povero ed orbo ei ne rimane per più corsi di sol pria che rinasca, gli componeano in mille forme estrane su la vedova fronte ombrosa frasca e con bell'arte il rifacean cornuto, quelche già per natura avea perduto.
53
Tra quanti il favoriro e l'ebber caro fu Ciparisso, un pellegrin donzello, per cui languiva il gran signor di Claro, ché non vide giamai viso più bello. L'età con la bellezza iva di paro ch'era degli anni ancor sul fior novello e del suo bel mattin l'alba amorosa le guance gli spargea di fresca rosa.
54
Questo fanciul, da' cui begli occhi acceso più che da' propri raggi ardeva Apollo, sempre a seguirlo, a custodirlo inteso, in pregio l'ebbe e sovr'ogni altro amollo. Gli avea di propria man fatto ed appeso di squillette d'argento un serto al collo, perché qualor da lunge il suon n'udiva lo potesse trovar se si smarriva.
55
Erra il giorno con lui, la sera riede là 've d'erbe e di fior letto l'accoglie. Spesso in braccio gli corre, in grembo siede, e prende di sua mano or acque, or foglie. Orgoglioso ei ne va che lo possiede, umil l'altro ubbidisce ale sue voglie e, con serico fren, pronto e leggiero si liscia maneggiar come un destriero.
56
Era nel tempo dele bionde spiche, quando il pianeta fervido di Delo i raggi a piombo insu le piagge apriche non vibra no, ma fulmina dal cielo. Il bel garzon fra molte querce antiche, che tessean di folt'ombra un verde velo, dopo lungo cacciar stanco ne venne e 'l domestico suo dietro gli tenne.
57
Or mentre il cervo pasce ed egli porge riposo ai membri in mezzo ala foresta, erger vago fagian non lunge scorge fuor d'una macchia la purpurea testa. Prende l'arco pian pian, dal'erba sorge, e 'l miglior stral dela faretra appresta; tende prima la corda, indi l'allenta e la canna ferrata innanzi aventa.
58
Dove l'arcier l'invia, lo stral protervo, ma dov'ei non vorrebbe, i vanni affretta. Dopo quel cespo il suo diletto cervo erasi posto a ruminar l'erbetta. Onde scagliato dal possente nervo il fianco inerme al misero saetta. Pensati tu, s'ala mortal ferita cade e 'n vermiglio umor versa la vita.
59
V'accorre il suo signor, volgendo dritto verso il flebil muggito il guardo pio. E quando vede, ahi cacciatore afflitto! in cambio del'augel quelche ferio e gemer sente il poverel trafitto, che par gli voglia dir: "che t'ho fatt'io?" stupisce e trema e da gran doglia oppresso vorria passarsi il cor col dardo istesso.
60
Scende colà lo dio chiomato e biondo dal suo carro lucente ed immortale e gli dimostra con parlar facondo come quelche l'afflige è picciol male. Ma nessuna ragion che porti al mondo a consolar lo sconsolato vale. Del cadavere freddo il collo amato abbraccia e bacia e vuol morirgli a lato.
61
Sfoga con l'innocente arco infelice il suo rabbioso e desperato sdegno. Spezza l'empie quadrella ed "omai (dice) non suggerete voi sangue men degno. Ma te del fiero colpo essecutrice mano ingrata e crudel, perché sostegno? perché, s'hai con lo stral commesso errore, non l'emendi col ferro in questo core?
62
Poiché perfido io stesso e malaccorto di propria man d'ogni tesor m'ho privo e, perduta ogni gioia ogni conforto, lieti oggetti e giocondi aborro e schivo, fa, prego, o ciel, senza il mio ben ch'è morto, ch'io fra tanto dolor non resti vivo; fa ch'io non senta almeno e che non miri senon feretri e lagrime e sospiri."
63
Apena egli ha vigor d'esprimer questo, che la pelle gl'indura e 'l busto ingrossa. Sorge piramidal tronco funesto, rozzo legno si fan le polpe e l'ossa. Verdeggia il crin frondoso e quanto al resto tutta da lui l'antica forma è scossa. Funeral pianta e tragica diviene e, quant'uom desiava, arbore ottiene.
64
S'un amante divin più ch'una fera, come ragion chiedea, curato avesse, forse non avria questi in tal maniera dato campo al destin che poi l'oppresse. Or tu non far, ch'occasion leggiera t'involi a lei che suo signor t'elesse, perché lontan da chi n'ha zelo e cura scompagnata beltà non va secura.
65
So che sovente per le selve errando, dove strani animali hanno ricetto, di girne ardito e 'ntrepido cacciando o con spiedo o con stral prendi diletto. Deh! non voler, tanto piacer lasciando, tra i perigli de' boschi entrar soletto. S'al viver tuo troncar non vuoi le fila, sovengati talor del caso d'Ila.
66
Era scudier del generoso Alcide Ila, il vago figliuol di Teodamante. Più bei crin, più begli occhi il sol non vide, più bel volto giamai, più bel sembiante. Con la tenera man l'armi omicide spesso stringea del bellicoso amante e del'immensa e smisurata clava fedelmente l'incarco in sé portava.
67
Quando al fier Gerion, quando ad Anteo tolse il forte campion la vita e l'alma, quando del'idra e del leon nemeo, del cinghiale e del tauro ebbe la palma, fu sempre a parte d'ogni suo trofeo, né lasciar volse mai la cara salma, seguendo pur con pronte voglie amiche de l'invitto signor l'alte fatiche.
68
S'armaro intanto per portar del'oro la ricca preda i naviganti audaci, del primo sprezzator d'austro e di coro quando a Colco passò fidi seguaci. V'andar di Leda i figli, andò con loro Teseo, andovvi il cantor de' boschi traci e, fra gli altri guerrier delo stuol greco, il gran figlio d'Almena ed Ila seco.
69
Sorse di Misia da buon vento scorta tra i verdi lidi la famosa nave, dove ferma su l'ancora ritorta depose de' suoi duci il peso grave. Procaccia qui la gioventute accorta per l'amene campagne ombra soave; chi le mense apparecchia insu le sponde, chi fa letto o sedil d'erbe e di fronde.
70
Ila, dal caldo e dala sete adusto, cerca ov'empir di gelid'onda un vaso, onde d'urna dorata il tergo onusto colà s'imbosca ove lo porta il caso. Crescer l'ombre fa già del folto arbusto il sol ch'omai declina inver l'occaso; ed ei per tutto spia se d'acqua sente alcuna scaturigine cadente.
71
Ed ecco giunge ove di museo e felce tutta vestita e d'edera selvaggia pendente costa di scabrosa selce gran parte adombra del'aprica spiaggia. Quinci l'orno e la quercia e l'alno e l'elce scacciano il sol qualor più caldo irraggia, spargendo intorno dala chioma oscura, opacata di fronde, alta frescura.
72
Quasi cor dela selva un fonte ombroso mormorando nel mezzo il prato aviva ed offre al peregrin fresco riposo chiuso dal verde ala stagione estiva. Dal sen profondo del suo fondo erboso spira spirto vital d'aura lasciva e porge al'erbe, agli arboscelli, ai fiori per cento vene i nutritivi umori.
73
Sotto questa fontana a chiome sciolte su'l bel fitto meriggio aveano usanza le napee del bel loco in cerchio accolte vaghe carole essercitare in danza. Com'Ila in lor le luci ebbe rivolte, d'infiammarle tra l'acque ebbe possanza, onde nel vivo e lucido cristallo rotto nel mezzo abbandonaro il ballo.
74
Come stella nel mar divelta cade dal'azzurro seren del cielo estivo o qual strisciando per oblique strade fende il notturno vel raggio festivo, così la rara e singolar beltade rapita ingiù dentro quel gorgo vivo, precipitando tra le chiare linfe trovossi in braccio ale gelate ninfe.
75
Dele vezzose dee l'umida schiera consolandolo aprova, in sen l'asconde; Driope, Egeria, Nicea, Nisa, Neera gli asciugan gli occhi con le trecce bionde. Ei la perduta libertà primiera piagne e col pianto amaro accresce l'onde. Ahi che disse ahi che fè, per doglia insano, de' mostri intanto il domator tebano?
76
Lungo il pontico mar con piè veloce cerca e ricerca ogni riposto calle. Tien la gran mazza nela man feroce, la libica faretra ha dale spalle. "Ila, Ila" tre volte ad alta voce, "Ila" chiamò per la solinga valle; né fuor ch'un mormorio debile e basso gli fu risposto dal profondo sasso.
77
Poscia che 'ndarno il suo ritorno attese, gemiti desperati al ciel disciolse, di rabbiosi sospiri il bosco accese, dele stelle, d'amor, di sé si dolse. Tifi, poiché le vele al'aura tese, gl'incliti eroi su l'alta poppa accolse. Ercol restò con dolorosi stridi tapino amante ad assordare i lidi.
78
Fra tante istorie ch'io ti narro e tante un punto principal non vo' tacere. Non esser in amor foglia incostante ch'al primo soffio è facile a cadere. Non esser alga in mar lieve e tremante che pieghi or quinci or quindi il tuo volere. Stabile ai venti, al'onde, in te raccogli la fermezza de' tronchi e degli scogli.
79
Vago è del bello e di leggier s'accende di duo begli occhi un giovinetto core. Agitato vacilla, or lascia, or prende quasi camaleonte ogni colore. Il pianeta volubile che splende tra le fredd'ombre del notturno orrore tante forme non cangia incontro al sole quant'egli in sé stampar sempre ne suole.
80
So che 'l ben si diffonde e si diletta communicarsi altrui per sua natura. Ma chi giunge a goder beltà perfetta non dev'esca cercar di nova arsura. Alma gentile in nobil laccio stretta di pubblico giardin frutto non cura, perché vulgare e prodiga bellezza posseduta da molti è vil ricchezza.
81
Cosa non è che tanto un core irriti quando Amor da ragion vinto si sdegna, quanto il vedersi i suoi piacer rapiti da mano ingrata e per cagion men degna. Tu gli altrui dolci e lusinghieri inviti fuggir, s'hai senno, a più poter t'ingegna, perché di te non faccia Citerea quelche d'Atide fece un'altra dea.
82
Cibele, degli dei madre feconda, fu d'Ati un tempo innamorata assai e degna n'era ben l'aria gioconda del viso ch'avea bel come tu l'hai. Avea bocca purpurea e chioma bionda e sotto oscure ciglia ardenti rai, né dele prime lane ancor vestita la guancia vermiglietta e colorita.
83
Poscia che degno il fè ch'egli salisse dela scala d'amor sul grado estremo, "Tu vedi ben (più volte ella gli disse) sicom'io sol per te languisco e gemo. Non far torto alo stral che mi trafisse, sol perché troppo t'amo, io troppo temo. Ala giurata fè non far inganno, se non vuol che 'l favor ti torni in danno."
84
"No no (dicea 'l garzon) beltà non veggio che mi possa adescar ne' lacci suoi. Dal dì ch'aveste in questo core il seggio per altr'occhi languir non seppi poi. Qualunque, ovunque io siami, esser non deggio altro giamai che vostro, altro che voi. Arderò, v'amerò, così prometto, finch'avrò sangue in vena, anima in petto."
85
Non molto andò che per riposte vie, vago di refrigerio e di quiete, mentre nela più alta ora del die cercava umor per ammorzar la sete, stelle il guidaro insidiose e rie in certe solitudini secrete, dove ombraggio cadea gelido e fosco dal folto crin d'un taciturno bosco.
86
Tra discoscese e solitarie piagge volge gran rupe al sol le spalle alpine; ombran la fronte sua piante selvagge, quasi del'aspra testa ispido crine; per l'occhio d'un canal, distilla e tragge lagrime innargentate e cristalline; apre un antro le fauci a piè del fonte quasi gran gola e fa la bocca al monte.
87
Quivi a seder Sangarida ritrova, un'amadriade assai vezzosa e bella. L'aviso dela dea poco gli giova, la contempla furtivo e non favella. Scender si sente al cor dolcezza nova e gli lampeggia il cor com'una stella, or avampa or agghiaccia e trema come de' vicini arboscei treman le chiome.
88
Al'ombra del suo bel tronco natio, che tempesta di fior le piove in grembo, steso su'l verde margine del rio la vaga ninfa ha dela gonna il lembo ed, ogni altro pensier posto in oblio, coglie dal prato quel fiorito nembo, dal prato, a cui più che la man non prende con larghissima usura il guardo rende.
89
Mentre al'errante crin tenero freno di fior bianchi innanella e di vermigli, si specchia e con l'umor chiaro e sereno par che tacitamente si consigli. Ma co' fior del bel viso e del bel seno perdon le rose assai, perdono i gigli e i fiati dela bocca aventurosa vincon l'odor del giglio e dela rosa.
90
Ciò fatto, nele pure onde tranquille poich'ha tre volte e quattro il volto immerso, per le labra innaffiar di fresche stille fa del concavo pugno un nappo terso. Ahi! che sugge ella umori, Ati faville, quantunque abbiano in ciò fonte diverso: dala mano e dagli occhi a poco a poco, mentrech'ella bev'acqua, ei beve foco.
91
Fuor del boschetto alfine il passo ei spinse e dal centro del cor trasse un sospiro, un sospir che lo spirto in aura strinse e fu muto orator del suo martiro. L'una allor si riscosse e l'altro tinse la pura neve del color di Tiro. Volea parlar ma, quasi ghiaccio al sole, venia meno la voce ale parole.
92
Ala leggiadra vergine dapresso si fè pur sospirando e pur gemendo con sì caldo desio nel volto espresso che ne' sospiri suoi chiedea tacendo, ma così reverente e sì dimesso che ne' gemiti suoi tacea chiedendo e spargea mille, d'aurei strali armati, fuor de' begli occhi spiritelli alati.
93
Tosto ch'a quella luce il volto volse, arse di pari ardor la giovinetta. Depose i fiori ed ei quel fior si colse ch'ai seguaci d'Amor tanto diletta. Quando in letto odorifero gli accolse la fresca, molle e rugiadosa erbetta, ne sussurrar, ne bisbigliar le fronde e dolce mormorio ne fu tra l'onde.
94
Ma la gelosa dea, che 'l fallo ascolta di quel suo disleal che l'ha tradita, tosto ale Furie infuriata e stolta ricorre e 'ncontr'al giovane l'irrita. Già di squallide serpi il crine involta vibra le faci sue, d'Averno uscita, e con foco e con tosco ecco ch'Aletto gli coce il core e gli flagella il petto.
95
Ferve d'insana ed arrabbiata voglia di tartaree fiammelle Atide acceso, spuma, freme, il piè scalza, il manto spoglia, sì lo strugge il velen che 'l cor gli ha preso; la feconda radice ond'uom germoglia e l'un e l'altro suo pendente peso, rei del suo mal, da gran furore indutto, miser, di propria man si tronca intutto.
96
Testimonio pietoso al caso tristo fu di Sinade allora il vicin colle che d'ognintorno rosseggiar fu visto del sangue del garzon rabbioso e folle; del sangue bel che con la rupe misto tutto il sasso lasciò macchiato e molle, onde Frigia dipinti ancor ritiene i marmi suoi di preziose vene.
97
Per trarsi poscia a precipizio, ascende ripida cima d'aspro monte alpino; ma mentre ingiù trabocca e in aria pende co' piedi in alto e con la fronte al chino, la dea che l'ama ancor, pietosa il prende, l'affige in terra e lo trasforma in pino. Ed or da quel di pria cangiato tanto in tenace licor distilla il pianto. –
98
Con queste fole e favolette avea del sommo Giove il messaggier sagace persuaso il garzon; né qui ponea freno al garrir, novellator loquace. Ma troncando il cianciar, stese la dea la man di neve al foco suo vivace e parve il cor con un sospiro aprisse, mentre queste parole ella gli disse:
99
– Adon cor mio, mio core, omai serena la mente ombrosa e lascia ogni altra cura. O tre volte mio cor, deh, prego, affrena quel desio di cacciar ch'a me ti fura. Non far, se m'ami, ch'acquistata apena perdano gli occhi miei tanta ventura; non voler dato a me, da me disgiunto e ricca farmi e povera in un punto.
100
Non sottopor de' boschi ai duri oltraggi le dilicate membra e giorno e notte; lascia a più rozzi cori e più selvaggi dele fere il commercio e dele grotte. Che ti giova menar tra l'elci e i faggi spezzati i sonni e le vigilie rotte e in ozio travagliato e faticoso inquieta quiete, aspro riposo?
101
Che ti val la faretra ognor di strali e di mostri la selva impoverire? Dele dive celesti ed immortali bastiti co' begli occhi il cor ferire, senza voler de' rigidi animali con tuo danno e mio duol l'orme seguire. Perché di questo sen denno le selve e di me più felici esser le belve?
102
Soffrir dunque poss'io che dale braccia rapita, oimé, mi sia tanta bellezza, per darla a tal, che con l'artiglio straccia e col dente ferisce e la disprezza? O crude fere, o maledetta caccia, o ricetti d'orrore e di fierezza, indegne di mirar luci sì pure, contumaci del sol, foreste oscure,
103
possiate sempre le rabbiose strida e i furori sentir d'Euro baccante. Fiero fulmine i rami a voi recida, sfrondi il crin, sfiori i fior, spianti le piante. Rigorosa secure in voi divida dal'amato arboscel l'arbore amante, sicome voi spietatamente il mio dividete da me dolce desio.
104
Sovra tutto il timor m'agghiaccia e coce dela triforme dea, ch'è donna anch'ella; e seben tanto incrudelì feroce nela misera sua già ninfa or stella, lascio il suo loco al ver, corre pur voce che non fu sempre al mio figliuol rubella, e, coprendo il piacer con la vergogna, sa goder e tacere quando bisogna.
105
Ma siasi pur qual i mortali sciocchi la fanno apunto, e santa e casta ed alma; che fia, s'egli averrà, che 'l sen le tocchi quello stral che di me portò la palma? Fiamma di questo cor, sol di quest'occhi, vita dela mia vita, alma del'alma, sappi ch'un raggio sol de' tuoi sembianti può romper marmi e calcinar diamanti. –
106
Risponde Adone: – O caramente cara, certo a me quanto cara ingrata sei, se creder puoi che possa, ancorché rara, altra beltà di me portar trofei. Il sol degli occhi tuoi sol mi rischiara, occhi più cari a me che gli occhi miei. Là si gira il mio fato e la mia sorte, essi son la mia vita e la mia morte.
107
Benché tutto di luci il ciel sia pieno, solo il sole è però che 'l mondo alluma. Non ha più face Amor per questo seno, sarò qual sono al foco ed ala bruma, di sì dolce fontana esce il veleno che dolcissimamente mi consuma. Giunga il mio corso a riva, o presto o tardo vivrò qual vivo ed arderò com'ardo.
108
Ma se costume e naturale instinto, che di fere affrontar mi dà baldanza, dala beltà che m'ha legato e vinto talor di desviarmi avrà possanza, non tene caglia no, ch'a ciò son spinto sol dal'antica e dilettosa usanza; né sdegnar tene dei, ché chi ben ama il piacer del su'amor seconda e brama.
109
Non sia prodigo amor, perché talora suole il cibo aborrir sazio appetito. Passa l'uso in disprezzo e spesso ancora frequentato diletto è men gradito, né sì aspettato e desiato fora s'april d'ogni stagion fusse fiorito; sempre quelch'è vietato e quelch'è raro più n'invoglia il desire e più n'è caro.
110
Non ch'io d'amarti, o fastidito o stanco possa aver mai di te l'anima sgombra; anzi quando il tuo sol mi verrà manco, sarò qual ciel cui fosca notte adombra, senz'occhi in fronte e senza core al fianco, senz'alma un corpo e senza corpo un'ombra. Ma se questo è destin, porta il devere che quelche vole il ciel vogli volere. –
111
Soggiunse allor Ciprigna: – Assai di questo il saggio dio del Nilo oggi t'ha detto. Ma per darti a veder più manifesto che non fuor di ragione è il mio sospetto, vo' che tu miri il guiderdon funesto che dà Diana a ciascun suo soggetto. Molto move l'essempio e per la vista maggior che per l'udir fede s'acquista. –
112
Qui tace e poi di quella torta scala che di mezzo al cortil gli archi distende, gli eburnei gradi, onde si monta e cala, preme e col bell'Adone in alto ascende. Qui per cento finestre immensa sala di polito cristallo il giorno prende e in un bel quadro di mosaico terso la figura contien del'universo.
113
Per quattro porte a quattro venti esposte s'entra e tutte son d'or schietto e forbito. Ha quattro mura le cui ricche croste del fondo interior celano il sito. Nele facciate tra sestesse opposte l'ordin degli elementi è compartito ed ha ciascun nela sua propria sfera ogni pesce, ogni augello ed ogni fera.
114
In ogni spazio v'ha quel dio ritratto che di quell'elemento ha sommo impero, e ciascuno elemento è sculto e fatto d'una materia somigliante al vero. Vermiglio il foco è d'un rubino intatto, ceruleo l'aere è d'un zaffir sincero, di smeraldo ridente e verdeggiante fatta è la terra e l'acqua è di diamante.
115
Occupa il campo poi del pavimento la region del tartaro profondo, ch'a fogliami di gitto ha un partimento fatto d'or fino e dilatato in tondo; e quivi in atta tal che dà spavento, vedesi il re del tenebroso mondo; seco ha l'orride dee di Flegetonte, cui fa pompa di serpi ombra ala fronte.
116
Nel'ampio tetto un ciel sereno è finto, opra maggior non lavorò ciclopo. Appo tante e tai gemme ond'è distinto, povero è l'Indo e scorno ha l'Etiopo; tutto di smalto, in mezzo è di giacinto, dove in forma di sol raggia un piropo; di crisoliti intorno e di balassi splendon di stelle in vece alti compassi.
117
Veder si può d'ogni lumiera ardente il fermo stato e 'l peregrino errore. V'ha quel co' mostri suoi torto e serpente, che tre cerchi contien, cerchio maggiore. V'ha l'un e l'altro tropico lucente, che del lume e del'ombra adeguan l'ore. V'ha gli altri duo che girano congiunti co' duo fissi del'orbe estremi punti.
118
V'ha l'equator, la cui gran linea eguale tra le quattro compagne in mezzo è posta, di cui l'estreme due l'una al'australe l'altra al confin di borea è troppo esposta. Havvi degli alti dei la via reale di spesse stelle e picciole composta, lo cui candor che 'l ciel per mezzo fende da' gemelli al centauro il tratto stende.
119
Nel centro dela sala un vasto atlante tutto d'un pezzo di diaspro fino sostien la volta e ferma ambe le piante sovra un gran piedestallo adamantino e sotto l'alta cupula pesante stassi con tergo curvo e volto chino; tutto quel ciel che si ripiega in arco appoggia a questo il suo gravoso incarco.
120
La Notte intanto al rimbombar de' baci invida quasi, in ciel fece ritorno e, portata da lievi Ore fugaci e di tenebre armata, uccise il Giorno. Il feretro del sol con mille faci le stelle amiche accompagnaro intorno e 'l mondo pien di nebbie e d'ombre tinto parea fatto sepolcro al lume estinto.
121
Erano i cari amanti entrati a pena l'un l'altro a braccio in quella sala altera, quand'ecco aprirsi una dorata scena, ch'emula al giorno illuminò la sera. Fora di luce e d'or men ricca e piena, se s'aprisse, cred'io, la quarta sfera; selve, statue, palagi agli occhi offerse la cortina real quando s'aperse.
122
Spettacolo gentil Mercurio in questa presentar vuole al fortunato Adone. Mercurio è quei che i personaggi appresta ed essercita e prova ogn'istrione e ciascun d'essi in lieta parte o mesta secondo l'attitudine dispone, né seco già di recitar consente turba vulgar di mercenaria gente.
123
L'Invenzion, la Favola, il Poema e l'Ordine e 'l Decoro e l'Armonia dela tragedia sua stendono il tema, la Facezia e l'Arguzia e l'Energia, l'Eloquenza è l'artefice suprema, sovrastante con lei la Poesia; seco il Numero, il Metro e la Misura si prendon dela Musica la cura.
124
Dansi ala coppia bella i seggi d'oro, donde quanto si fa tutto si scerne; ed ecco il primo uscir di tutti loro il portator del'ambasciate eterne, ch'a spiegar l'argomento in stil canoro mostra venir dale magion superne e 'l suggetto proposto e persuaso è d'Atteone il miserabil caso.
125
Ed Atteone al Prologo succede, che vien con archi e dardi e cani e corni e da molti scudier cinto si vede di spiedo armati e nobilmente adorni; e mentre ch'ei dele selvagge prede parte d'essi a spiar manda i soggiorni, e squadra i passi ed ordina la traccia, con diverse ragion loda la caccia.
126
Ed ecco ad un squillar d'avorio torto sbucar repente da cespugli e vepri di mansuete fere Adone ha scorto più d'uno stuol tra mirti e tra ginepri; e dal palco saltar con gran diporto damme e camozze e cavriuoli e lepri e parte dela dea fuggirsi al lembo e parte a lui ricoverarsi in grembo.
127
Ma poco stante si dilegua a volo la caccia e nova effigie il palco prende, perché librato in un volubil polo, sestesso insu quel cardine sospende, loqual in giro e ben confitto al suolo volgesi agevolmente, or poggia or scende, e 'l mobil peso suo portando intorno, viene alfine a serrar corno con corno.
128
Come congiunti in un sol globo il mondo duo diversi emisperi insieme lega, per l'orizzonte che dal sommo al fondo la rota universal per mezzo sega, così l'ordigno che si gira in tondo vari teatri in un teatro spiega, senon che dove quel n'abbraccia duo, questo più ne contien nel cerchio suo,
129
sì ché, quantunque volte un novo gioco agli occhi altrui rappresentar si vole, fa mutar faccia in un instante al loco l'orbicolare e spaziosa mole, ch'entro concava vite a poco a poco senza strepito alcun mover si suole, e con tanto artificio or cala or sorge, che l'occhio spettator non sen'accorge.
130
Reggon l'opra maggior vari sostegni, e correnti e pendenti ed asse e travi e di bronzo ben saldo armati legni, dure catene e grossi ferri e gravi e con argani mille e mille ingegni del medesmo metallo, e chiodi e chiavi; e questo ordine a quel sì ben risponde che nel numero lor non si confonde.
131
Ed or che per cacciar dal verde prato il tebano garzone il piè ritira, tosto che su'l gran vertice forato il ferrato baston mosso si gira, cangia sito la scena e l'apparato in altro aspetto trasformar si mira ed, al cader dela primiera tela, differenti apparenze altrui rivela.
132
Spelonche opache v'ha, foreste amene, piagge fresche, ombre fosche e chiari fonti. Vivi argenti colà sparge Ippocrene, qui Parnaso bicorne erge due fronti. Con le sue dotte e vergini sirene discende Apollo da que' verdi monti, imitando quaggiù, vaghe e leggiere, le danze che lassù fanno le sfere.
133
Ciascuno accorda al'organo che tocca i passi e i salti inun, gli atti e le note e con la man, col piede e con la bocca l'aure a un punto e le corde e 'l suol percote. Finito il ballo, in un momento scocca il magistero del'occulte rote e, volgendosi il perno a cui s'appoggia, riveste il palco di novella foggia.
134
Dopo il primo intermedio, un'altra volta videsi il bosco e quivi Cinzia apparse, che venne stanca ala verd'ombra e folta dela valle Gargafia a rinfrescarse e, d'ogni spoglia sua discinta e sciolta, lavò le membra affaticate ed arse e, tra le pure e cristalline linfe, si stette a divisar con l'altre ninfe.
135
Gira la scena e in un balen girando di centauri guerrier piena è la piazza; chi d'acuto trafier la destra armando, chi d'asta lieve e chi di grave mazza. Salvo in braccio lo scudo, in armeggiando non han che copra il resto elmo o corazza. Grida la tromba in bellicosi carmi: "ala guerra, ala guerra, al'armi, al'armi."
136
Già par che con furor l'un l'altro assaglia, già già par che di sangue il suol si sparga. Armonica e per arte è la battaglia, or s'intreccia, or fa testa ed or s'allarga e, mentre contra quel questo si scaglia, fan cozzar clava a clava e targa a targa e, battendosi a tempo or tergo or petto, fan di mezzo al'orror nascer diletto.
137
Mentre Adone al bel gioco è tutto intento, Amor pietoso a rinfrescarlo viene e gli reca, una d'oro una d'argento, coppe d'ambrosia e nettare ripiene. Ei quanto basta al debito alimento n'assaggia sol per ristorar le vene, ch'altr'esca, onde maggior gusto riceve, pasce con gli occhi e per l'orecchie beve.
138
Nel'atto terzo insu 'l girevol fuso la machina versatile si volve, e ritorna Atteon sparso e diffuso il volto di sudor tutto e di polve, onde di dar al veltro ed al seguso alquanto di quiete alfin risolve; coglie le reti e nel'ombrosa e fosca selva per riposar solo s'imbosca.
139
Or tra i confin di questo e del'altr'atto non men bel si frapon novo intervallo: ondeggiar vedi un mar, non so se fatto di zaffiro o d'argento o di cristallo e le sponde vestir tutte in un tratto d'alga e di limo e d'ostro e di corallo e tremar l'onde con ceruleo moto e delfini guizzar per entro a nuoto,
140
e quinci e quindi per l'instabil campo spiegar turgide vele antenne alate, urtar gli sproni e con rimbombo e vampo venir in pugna due possenti armate. Di Giove intanto il colorato lampo listando il fosco ciel di linee aurate, fa per l'aria vibrar con lunghe strisce mille lingue, di fiamma oblique bisce.
141
Folgora il cielo e folgoran le spade, gonfiansi l'onde tempestose e nere ed acqua e sangue per l'ondose strade piovon le nubi e piovono le schiere. Chi fugge il ferro e poi nel foco cade, chi fugge il foco e poi nel'acqua pere, chi di sangue e di foco e d'acqua asperso more ucciso, in un punto arso e sommerso.
142
Tale è la guerra e la procella e 'l gelo, ch'agguagliato è quelch'è da quelche pare; ma in breve poi rasserenarsi il cielo vedi e in un punto implacidirsi il mare, ed Iri il suo dipinto umido velo stender per l'aure rugiadose e chiare; spariscon le galee, svanisce il flutto, struggesi l'arco e si dilegua il tutto.
143
Ciò fatto, il bel teatro ancor si chiude, poi si vede sgorgar vaga fontana, dove tra molte sue seguaci ignude stassi Atteone a vagheggiar Diana. Ed ella con le man leggiadre e crude gli toglie dopo il cor la forma umana; con pelo irsuto e con ramose corna il miser cacciator cervo ritorna.
144
Nel fin di questo in un azzurro puro al'improviso il ciel si discolora, e fregiando d'argento il campo oscuro, con le stelle la luna ecco vien fora. Poi, dando volta il neghittoso arturo, col giorno a mano a man sorge l'aurora; vero il sol crederesti e vera l'alba, che le nebbie rischiara e l'ombre inalba.
145
S'alza il palco di sotto a un tempo istesso e mezzo anfiteatro in giro spande. Prospettiva superba appare in esso con ricca mensa e sontuosa e grande, e v'ha de' sommi dei tutto il consesso con tal pompa d'arnesi e di vivande, tanto tesor, tanto splendor disserra, che sembra apunto il ciel calato in terra.
146
Concerto allor di musici concenti da basso incominciò, d'alto e da lato e concordi s'udir vari istromenti, qual da man, qual da gamba e qual da fiato, ed acuti e veloci e gravi e lenti alternar versi al pasteggiar beato, e rispondersi insieme in molti cori mute di ninfe e sinfonie d'amori.
147
La notte il sesto grado avea fornito dela scala onde poggia al'orizzonte, quando da cani e cacciator seguito comparve il cervo attraversando il monte. Ma più non pote Adone instupidito sollevare gli occhi o sostener la fronte, onde in grembo a colei che gli è vicina sovravinto dal sonno il capo inchina.
148
In quella guisa che, dal primo sole tocco talor, papavero vermiglio piegar la testa sonnacchiosa suole e tramortire infra la rosa e 'l giglio, abbassa in braccio a lei, che non si dole di tal incarco, addormentato il ciglio; né certo aver potea questa né quello peso più dolce, né guancial più bello.
149
Questa fu la cagion che non poteo dela tragica strage il fin sentire, né con che strazio doloroso e reo venne sbranato il giovane a morire, né d'Autonoe i lamenti e d'Aristeo, né del'antico Cadmo i pianti udire, ché la pietosa dea che 'n sen l'accolse infino al novo dì destar nol volse.
150
Già richiamava i corridori alati al giogo, al morso il portator del lume e già desta dal suon de' freni aurati e serena e ridente oltre il costume la nutrice bellissima de' prati sorta era fuor dele purpuree piume ad allattar de' suoi celesti umori l'erbe e le piante e nele piante i fiori,
151
quando svegliossi Adone e sì s'accorse che già chiaro i balconi il sol feriva. Si terse i lumi col bel dito e sorse da Mercurio invitato e dala diva. La bella Citerea la man gli porse e, per la via che nela corte usciva, menollo in un giardin, presso il cui verde degli Elisi beati il pregio perde.
|
|
|
|